Allo spazio d’arte San Marco di viale Volta 93 è in corso – e sarà visitabile sino al prossimo 16 gennaio (dal lunedì al sabato dalle 16 alle 19) – la personale dell’artista parmigiano Giorgio Gost (nella foto a destra con Claudio Tiscione, titolare della galleria). Una rassegna completa, un percorso che abbraccia ormai oltre tre decenni e che, in particolare, vuole soffermarsi su quella che ormai da tempo sembra essere diventata la “mission” di Gost: conservare letteralmente “sotto teca” gli oggetti comuni della nostra quotidianità, trasformandoli in vere e proprie opere d’arte in modo di renderli fruibili a qualche appassionato archeologo di un ipotetico futuro non meglio specificato, anche se l’artista fissa come traguardo quello del sesto millennio.
Un’idea che Giorgio Gost ha iniziato a maturare sul finire degli anni ’80 quando cominciò a raccogliere antiche fatture (alcune risalenti all’anteguerra), bolle d’accompagnamento e altro ancora. Documenti ancora redatti manualmente, che il tempo cominciava a cancellare: «Alla fine di ogni annualità fiscale – ha spiegato – vengono distrutti migliaia di documenti. Ho pensato in qualche modo di conservarli come testimonianza di un passato rendendoli componenti dei miei quadri», caratterizzati dalla contemporanea presenza di figure geometriche colorate che hanno ottenuto l’apprezzamento del pubblico.
Conservazione sì, ma fino a quando? Il terremoto che colpì l’arcipelago giapponese alla metà degli anni ’90 del secolo scoros suggerì a Gost un ulteriore passaggio: «Realizzare lavori con dei blocchi di resina che potessero resistere anche in caso di crolli dovuti a un’improvvisa attività sismica». Ma il materiale da “salvare” ha finito per comprendere opere di altri artisti famosi (dai celebri “tagli” di Fontana a Boetti, solo per citarne un paio) e tanti oggetti della nostra quotidianità. Sotto “teca” sono così finite una preziosa bottiglia di vino Barolo, lattine di olio motore degli anni ’50 e ’60, una scatola di detersivo, un mazzo di chiavi e tanto altro ancora. Finendo per isolare il tutto in una dimensione al di là dello spazio e del tempo. Nella speranza che qualche archeologo del futuro non rimanga più di tanto perplesso e non si ponga troppi interrogativi circa gli usi e i costumi umani a cavallo dell’anno 2000.