Gianni Lucini giornalista, scrittore, drammaturgo sceneggiatore novarese classe 1953 tra le tante cose è anche un grandissimo appassionato di musica. La musica vera, quella suonata sui palchi piazzati in mezzo a campi immensi o “incastrati” magicamente in piazze straripanti di gente.
Lucini scrive bene e lo fa in maniera lucida, diretta senza fronzoli e la sua ultima fatica letteraria, “E ora pagateci i danni di Woodstock!” ne è un esempio. Nessuna parola in più o lasciata al caso, dosa bene la penna e analizza, ecco, analizza con estrema accuratezza un capitolo che ha segnato la musica mondiale: il Festival di Woodstock. La rassegna musicale che, negli anni Settanta, è entrata nella leggenda grazie alle stelle che hanno calpestato il suo palco: Bob Dylan, Jimi Hendrix, Janis Joplin, solo per citarne alcuni. «Una fatica immensa – ammette il giornalista – una fatica immensa scrivere questo libro, ma è stato doveroso».
Dopodiché, si accende la pipa, si siede e inizia il racconto: è un fiume in piena.
Curiosa la scelta del titolo: ci sveli da dove nasce l’idea?
In realtà è il titolo di uno dei 366 racconti. In esso riporto la storia tutt’altro che paradossale del fatto che Max Yasgur, il proprietario della fattoria di Bethel che aveva ospitato la “tre giorni di pace, amore e musica” entrata nella storia come il Festival di Woodstock dopo la fine dell’attenzione mediatica di un evento epocale diventa una sorta di calvario. Spenti i fari dei palchi, rimesse in sesto le strade, rinata l’erba sui prati trasformati in pantano, rifatte le recinzioni travolte dalla massa umana, egli viene citato in tribunale dai proprietari dei terreni confinanti che chiedono trentacinquemila dollari di risarcimento per i danni provocati dal pubblico alle loro proprietà. In più ci sono le denunce per interruzione di pubblico servizio delle istituzioni locali e nazionale per il caos sulle strade. Lui è un uomo semplice e non si scompone. Si limita a dire che facciano come vogliono «Non ho tutti i soldi che mi chiedono. Andrò davanti ai giudici e glielo dirò…». Anche i protagonisti del Festival di Woodstock, divenuti improvvisamente delle star, sono lontani, impegnati a far fruttare l’inaspettata popolarità. Lui non si lamenta, non si fa problemi. La causa si trascinerà per molto tempo, ma non approderà a niente, anche perché il buon Max con la sua semplicità troverà un modo originale per uscirne: l’8 febbraio 1973, a cinquantatré anni, morirà d’infarto lasciando tutti con un palmo di naso… L’ho trovato un modo simbolico di racchiudere la mia concezione del rapporto tra musica, eventi mediatici e realtà. E poi è un esempio di come illusioni, realtà e speculazione in questo mondo si mescolino in modo imprevedibile.
Un libro che ripercorre le tappe storiche fondamentali della musica internazionale attraverso una moltitudine di aneddoti. Il processo creativo dietro questo “almanacco” deve essere stato molto lungo e articolato…
Lungo una vita. Come racconto nella prefazione tutto inizia con una telefonata di Sandro Curzi all’epoca direttore del quotidiano Liberazione. È l’unico Direttore che ha avuto il coraggio di affidarmi una rubrica quotidiana su un giornale a diffusione nazionale e che ha sempre incoraggiato le mie follie. Voleva storie belle da leggere con scadenza quotidiana d’argomento musicale che avessero un solo requisito: quello di raccontare un evento avvenuto nel giorno preciso della pubblicazione. Dopo anni, quando si è chiusa questa esperienza ho continuato a scrivere storie. Ancora oggi lo faccio per “Daily Green”. Oggi ho un archivio immenso. Potrei scrivere cinque, forse dieci libri simili a questo, ma in realtà ho cercato di scegliere le 366 che fossero più significative e intriganti.
C’è un capitolo che ti piace più degli altri? Se sì, perchè?
Non ce n’è uno particolare. Se proprio devo scegliere forse quello da cui ho tratto il titolo del libro, ma è una forzatura. Amo tutte le storie allo stesso modo.
Secondo Lucini, la musica di oggi, come sta? Quali sono le sue “condizioni di salute”…
È un discorso complicato. Io amo ascoltare tutto e non sono mai conservatore. Oggi però chi fa musica fatica a sopravvivere. Si assiste alla prorompente crescita di quel “mercato del nulla” che è il download, cioè la possibilità di scaricare musica da Internet apparentemente gratis o a costo bassissimo, in realtà pagando ogni componente, dai minuti di collegamento all’hardware necessario fino ai supporti su cui riversarlo liberando così l’industria da ogni responsabilità sul prodotto finale. Gente furba quella delle major. Sui download ha finto di stracciarsi le vesti e ha lasciato la sperimentazione dei sistemi alla fantasia del popolo della rete in cambio dell’illusione di aver trovato spazi di libertà inaspettati e poi, una volta istruiti i pupi e creato il bisogno a costo zero, ha fatto quel che da tempo pensava di fare: organizzare la risposta. Va poi aggiunto che il mercato italiano, pomposamente definito l’ottavo del mondo, conferma la sua marginalità se si pensa che vale un ottavo di quello giapponese e un ventesimo di quello statunitense. È un sistema produttivo che non fa più ricerca, non stimola novità, non racconta più niente. La musica di massa non lascia tracce importanti che non siano il riciclaggio di idee vecchie. La rivoluzione non abita da tempo negli studi di registrazione delle major, ma la polvere sta soffocando anche la tiepida voglia di innovare, di lasciare un segno sui tempi delle etichette indipendenti. I vecchi e nuovi padroni della musica non hanno più tempo né voglia di investire sui talenti. Il loro obiettivo è uno solo: vendere il più possibile senza rischi. E allora se il presente non offre molto si saccheggia il passato. Antologie, remix, registrazioni mai finite su disco perché all’epoca in cui sono state fatte si ritenevano fondamentalmente delle chiaviche, tutto è buono per fare qualche spicciolo alla faccia dei polli. Poco importa se i prodotti di scarsa qualità abbassano il livello culturale dei consumatori e distruggono, nei fatti, il mercato futuro. Vi ricordate come inizia la storia dei Beatles? Un ragazzo entra in un negozietto di dischi e chiede al titolare un loro singolo praticamente introvabile. Il titolare si chiama Brian Epstein e non li conosce. Trova il disco, l’ascolta, s’incuriosisce e diventa il loro manager. Oggi la storia dei ragazzi di Liverpool non comincerebbe neppure. Sommersi da tonnellate di produzione standardizzata i negozi di dischi soccombono nel confronto con le grandi strutture commerciali. La produzione viaggia con la fretta del profitto di rapina, mentre la qualità e la ricerca hanno bisogno di tempo e il music business ha smesso da decenni di apprezzare il coraggio e la genialità.