Il critico Riccardo Bertoncelli “osserva” il Trio Correspondences al Novara Jazz

Quando ad un concerto jazz incontro quel mostro sacro della critica musicale che è Riccardo Bertoncelli, significa che qualcosa di grosso bolle in pentola. Un po’ come se la sua presenza fosse garanzia della qualità del concerto. E così, facendo il disinvolto e chiacchierando dei tempi passati approfitto per chiedergli per quale dei tre musicisti del “Trio Correspondences”, di scena sabato 19 marzo allo spazio Nòva per l’edizione invernale di Novara Jazz 2022, si fosse scomodato. Lui con la solita “nonchalance”, mi risponde che è venuto a dare un’occhiata. Ma io so che le sue “occhiate” non sono mai casuali, ed infatti Jason Roebke al contrabbasso, Josh Berman alla cornetta e Sven-Åke Johansson alla batteria, danno vita ad uno dei più suggestivi ed intensi concerti della stagione a “Nòva” uno spazio, vale la pena ricordarlo, ricavato da un’ex-caserma e al centro di interessanti progetti futuri.

Quando Jason Roebke impugna il suo contrrabbasso ed esita a lungo, con gesti trattenuti, prima di far vibrare le corde dello strumento, si comprende all’istante che sta per accadere qualcosa di molto interessante. Roebke sembra far suonare il silenzio che non è poi proprio la cosa più facile del mondo: si tratta di far percepire allo spettatore il silenzio come parte integrante di un pezzo musicale.

Accade a volte, nel jazz come nella musica classica, che il silenzio faccia la sua parte nel mezzo di un movimento, un intervallo dove lasciar risuonare gli armonici, dove dare allo spettatore il tempo di una rapida riflessione o, nel caso del jazz, un respiro, dopo qualche mirabolante virtuosismo. Tuttavia, far risuonare il silenzio, prima che il brano inizi, è cosa che riesce a pochi grandi o grandissimi musicisti. Anche Josh Berman esita a lungo prima di produrre una nota, anzi un primo vagito rumoristico e, persino la batteria del grande vecchio Sven-Åke Johansson, inizia rispettosa in quel vuoto abilmente popolato da “non-suoni”.

Poi una volta che l’incanto del silenzio si è rotto, incomincia il ricamo musicale fatto di suoni assolutamente originali, dove è sempre Josh Berman a popolare lo spazio (e il tempo), di figure in veloce evoluzione, che evocano moltitudini e solitudini, con l’impasto dei colori sonori del jazz di Chicago (ricordiamo che sia Josh Berman che Jason Roebke, provengono da quella città). A Sven-Åke Johansson, sembra essere riservato il ruolo di “disturbatore autorizzato”, ruolo che riveste magnificamente e con grande immedesimazione simbiotica con gli altri due musicisti.

Scorre via veloce questa intensa ora di concerto, tra le iperboliche figure musicali della cornetta di Berman, le strozzature sincopate del contrabbasso di Roebke e le sfarinature della batteria di Johansson, un continuum di vuoti più che di pieni, un jazz “sottrattivo” di grande carattere.

Lo sapevo, che quando Riccardo Bertoncelli esce dal suo proverbiale rifugio pieno di dischi rock, per “dare un’occhiata”, una buona ragione c’è sempre. Direi un’ottima ragione…

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Mario Grella

Nato a Novara, vissuto mentalmente a Parigi, continua a credere che la vita reale sia un ottimo surrogato del web.

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Quando ad un concerto jazz incontro quel mostro sacro della critica musicale che è Riccardo Bertoncelli, significa che qualcosa di grosso bolle in pentola. Un po' come se la sua presenza fosse garanzia della qualità del concerto. E così, facendo il disinvolto e chiacchierando dei tempi passati approfitto per chiedergli per quale dei tre musicisti del "Trio Correspondences", di scena sabato 19 marzo allo spazio Nòva per l’edizione invernale di Novara Jazz 2022, si fosse scomodato. Lui con la solita "nonchalance", mi risponde che è venuto a dare un'occhiata. Ma io so che le sue "occhiate" non sono mai casuali, ed infatti Jason Roebke al contrabbasso, Josh Berman alla cornetta e Sven-Åke Johansson alla batteria, danno vita ad uno dei più suggestivi ed intensi concerti della stagione a "Nòva” uno spazio, vale la pena ricordarlo, ricavato da un'ex-caserma e al centro di interessanti progetti futuri.

Quando Jason Roebke impugna il suo contrrabbasso ed esita a lungo, con gesti trattenuti, prima di far vibrare le corde dello strumento, si comprende all'istante che sta per accadere qualcosa di molto interessante. Roebke sembra far suonare il silenzio che non è poi proprio la cosa più facile del mondo: si tratta di far percepire allo spettatore il silenzio come parte integrante di un pezzo musicale.

Accade a volte, nel jazz come nella musica classica, che il silenzio faccia la sua parte nel mezzo di un movimento, un intervallo dove lasciar risuonare gli armonici, dove dare allo spettatore il tempo di una rapida riflessione o, nel caso del jazz, un respiro, dopo qualche mirabolante virtuosismo. Tuttavia, far risuonare il silenzio, prima che il brano inizi, è cosa che riesce a pochi grandi o grandissimi musicisti. Anche Josh Berman esita a lungo prima di produrre una nota, anzi un primo vagito rumoristico e, persino la batteria del grande vecchio Sven-Åke Johansson, inizia rispettosa in quel vuoto abilmente popolato da “non-suoni".

Poi una volta che l'incanto del silenzio si è rotto, incomincia il ricamo musicale fatto di suoni assolutamente originali, dove è sempre Josh Berman a popolare lo spazio (e il tempo), di figure in veloce evoluzione, che evocano moltitudini e solitudini, con l'impasto dei colori sonori del jazz di Chicago (ricordiamo che sia Josh Berman che Jason Roebke, provengono da quella città). A Sven-Åke Johansson, sembra essere riservato il ruolo di "disturbatore autorizzato", ruolo che riveste magnificamente e con grande immedesimazione simbiotica con gli altri due musicisti.

Scorre via veloce questa intensa ora di concerto, tra le iperboliche figure musicali della cornetta di Berman, le strozzature sincopate del contrabbasso di Roebke e le sfarinature della batteria di Johansson, un continuum di vuoti più che di pieni, un jazz “sottrattivo” di grande carattere.

Lo sapevo, che quando Riccardo Bertoncelli esce dal suo proverbiale rifugio pieno di dischi rock, per “dare un’occhiata”, una buona ragione c’è sempre. Direi un’ottima ragione…

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