Vado sempre con un certo sospetto a teatro nella mia città. Anche con un certo pregiudizio. Mi fido sempre dei miei pregiudizi e faccio bene. Forse è poco elegante scriverne poiché i biglietti mi sono stati donati, però mi sembra di assolvere ad un compito di “pubblica utilità” se non proprio di “salute pubblica” raccontando di come è stato ridotto uno dei più famosi testi del teatro francese, quel “Malato immaginario” di Molière che fece andare in visibilio la Parigi della fine del XVII secolo che accorse al Palais Royal per assistere alla famosa “comédie-balet”.
Dimentichiamoci la nobile storia del testo francese e veniamo alla pedestre rappresentazione di sabato sera al Teatro Coccia per la regia di Guglielmo Ferro e l’interpretazione discutibile di Emilio Solfrizzi. Scriveva Antonio Gramsci che occorre saper leggere i classici con distacco, e credo avesse ragione, come in questo caso: se non si è in grado di proporre una invenzione scenica, che sappia dar conto della ricchezza della messa in scena progettata dallo stesso Molière, se non si ha la capacità di “tradurre” un testo del Seicento attraverso una regia che possa rendere conto di un umorismo in punta di fioretto come quello del testo originale e per contro si cerca di “buttarla in caciara”, strizzando l’occhio all’umorismo regionalistico, allora è meglio lasciare il povero Argante alla sue malattie immaginarie e passare oltre.
La rappresentazione di sabato chiudeva la stagione di prosa del Teatro Coccia, mi sfugge quando sia iniziata, ma meglio così. Il malato di Moliére è immaginario, ma il Coccia non è certo in via di guarigione…