Forse piove, forse, visto che in Piemonte, ormai, la pioggia pare essere un ricordo. L’appuntamento è fissato sotto a un cielo grigio, carico, si vede che è carico di acqua, ma non si lascia andare, non butta fuori niente. E lì, vicino a una piazza che torna piano piano a spogliarsi delle mascherine, seduto al dehor di un bar, Mancho, al secolo Francesco Grillo. Ci vede, toglie gli occhiali da sole e ci stringe la mano: una stretta solida, decisa come la sua musica. L’occhio scappa sulla copertina del singolo che tiene vicino al bicchiere: è il famoso dipinto di Volpeda, il Quarto stato rivisitato in chiave moderna. «Rappresenta un po’ come sono fatto io, per questo l’ho scelto come copertina» ci anticipa, Mancho che musicalmente parlando propone un crossover di generi, di intenti, di gamme sonore, dunque, spiazzante, mai banale, dove la sfumatura che emerge con più forza è decisamente il rap. Qui, Grillo, è a suo agio si sente dalle barre, dal flow e se ne accorge addirittura Filadelfo Castro, produttore e direttore d’orchestra del Festival di Sanremo che decide di seguire il percorso musicale del giovane rapper novarese. Da qui le date in giro per il territorio e l’Italia si sprecano e, un giorno, proprio uno di quei giorni lì che sembrano come tantissimi altri, riceve un invito: Festival Europeo di Frosinone che, tradotto, significa aprire il concerto di sua maestà Bob Sinclair.
A questo punto, prende il cellulare, e ci mostra una foto del festival: classico camerino, luci, tavoli bianchi, bottiglie, frutta, giacche sparse, strumenti a terra e lui, Mancho, al fianco dei Toto e Gipsy King. Sorrisi e un brindisi con un rum cubano. «E che brindisi», sorride e si lascia andare nella chiacchierata che segue.
Hai iniziato con la musica molto presto grazie a tuo padre tastierista. Cosa ti ha spinto verso il tuo genere che è molto distante rispetto all’ambiente musicale in cui sei cresciuto?
Mi sono sempre definito un artista poliedrico, proprio grazie a mio padre che mi ha cresciuto suonando blues, rock e jazz, ho sviluppato negli anni una forte attrazione verso il genere rock prima di quello rap, non ho mai avuto un genere preciso, passo da una canzone punk come “Santo” ad una ballata pop come “Casa mia”, di fondo credo che proprio grazie alla musica di mio padre ho imparato ad apprezzare la musica in generale e ad esprimermi in più generi.
L’ultimo singolo è ispirato al celebre dipinto di Volepda, il Quarto stato, da sempre simbolo di chi non molla mai, ma che parte comunque svantaggiato . Ti senti di appartenere a questa categoria?
Era una sera triste e fredda, mi sentivo giù e non avevo stimoli, mi sono incontrato con Puglie, mio storico amico che mi da spesso una mano con le mie canzoni, aiutandomi a creare scenari di ogni tipo e supportandomi sempre. Abbiamo preso da bere e ci siamo seduti su degli scalini di fronte al supermercato, lì nasce la barra “a noi che bastano due birre e due scalini freddi”, parlavamo di come paradossalmente, nella vita riesce sempre chi ha la faccia più tosta e non chi effettivamente ha più talento, in ogni ambito. «Ci vorrebbe una rivincita» mi ha detto lui, io di istinto ho risposto, «sì, la rivincita dei deboli» da lì è nato tutto il concetto della canzone che ho scritto in giornata il giorno dopo, ero pieno di cosa da dire
Il genere che canti, nell’immaginario collettivo, è la musica dei “duri”, non di sicuro degli ultimi. Ti senti un po’ fuori dal coro?
Mi sento totalmente fuori dal coro, amo sentirmi così ed è bellissimo quando la gente lo nota. In tutto quello che faccio tendo sempre ad essere l’alternativo, nella musica come nella quotidianità. Sicuramente il fatto di essere cresciuto col rock e con il punk ha influenzato questa mia indole “contro ogni tipo di sistema o convenzione”, sentirmi un debole è un mio grande punto di forza.
Un “debole” che però ha aperto uno show di un mostro sacro. Cosa si prova ad aprire il concerto di un grande artista come Sinclair?
Un’esperienza quasi surreale, io ed il mio socio Rene eravamo a questo evento a Frosinone, due ragazzini di fronte a quasi 10 mila persone. Ho avuto modo di condividere il camerino con artisti di fama mondiale come i Toto o i Gipsy King, abbiamo bevuto tutti insieme del rum cubano e ci siamo supportati a vicenda prima dell’evento, Sinclair è un artista unico, un visionario ma molto umile, è stato tutto così assurdo, un’esperienza che va vissuta per essere raccontata.
Progetti futuri?
Come prossimo progetto ho sicuramente in testa l’idea di creare il mio primo album ufficiale sotto la Orangle, ho tanti singoli non usciti e tanti altri che sto scrivendo, voglio solo trovare un filo conduttore che unisca il disco e, se la situazione lo permette, tornare a suonare live, che è la cosa che preferisco di più in assoluto.
Domanda di rito: artisticamente parlando dove ti vedi fra cinque anni?
Non ho mai avuto piani B, la musica sarà la mia salvezza o la mia condanna. Tra cinque anni spero solo di poter fare arrivare le mie creazioni a più gente possibile, suonare in giro, vivere di musica e portare in alto la mia città, spero che da qui a cinque anni la mia vita si riempia di cose da raccontare e di persone da conoscere. In ogni caso non vedo un futuro alternativo a questo, quindi in sostanza spero solo di fare quello che sto facendo, ma molto più in grande