Che l’organo sia uno strumento versatile è risaputo, ma è anche risaputo che, pensando alla musica d’organo, il riferimento sia sempre, o quasi, alla musica sacra se non proprio “chiesastica” e ,qualche volta, anche con una connotazione psicologica che contempla una certa noiosità. Naturalmente sono beceri luoghi comuni, ma è certo che fino a che non si è ascoltato un musicista come Kit Downes, che apre l’ultimo giorno di “Novara Jazz” con uno straordinario concerto sull’organo “Biroldi” della Chiesa di San Giovanni Decollato di Novara (da poco restituito restaurato alla città), non si è ancora assaporato appieno cosa possa produrre un organo (e la bravura del compositore, s’intende). Dimenticatevi tutto o quasi tutto di quello che la vostra memoria ha sedimentato nella parola “organo” e voltate pagina: niente registri consueti, niente movimenti, niente ascendenze codificate, tutto nuovo, tutto mai sentito (o quasi mai).
Uso “spregiudicato” dello strumento, officina di suoni, asimmetricità della composizione, luce nuova. Tim Downes sembra maneggiare la musica d’organo con irriverenza, ma non è così, si tratta piuttosto di una liberazione dello strumento da quegli schemi fissi che hanno abituato lo spettatore ad aspettarsi da questo strumento solo un certo tipo di musica e non altro. Un timore reverenziale che nel pubblico è venuto meno con questo straordinario concerto che, se in parte risente della “britannicità” per alcune impostazioni del musicista di Norwich, porta contemporaneamente una travolgente folata di novità, nell’uso dell’organo. Il concerto di questa mattina riassume in un certo senso tutta la “mission” e l’anima del jazz: la continua, indomita, perseverante ricerca di suoni nuovi, ritmi nuovi, persino l’utilizzo diverso dello strumento stesso.
Un’ora dopo, nella bella sala della Collezione Giannoni, mentre nel cortile dell’Arengo vanno a spegnersi le note dell’esibizione dell”Orchestra Erios”, ci aspetta il bel quadro di Filiberto Mingozzi con la sua “Sinfonia del mare” dinnanzi al quale, Bruno Chevillon con il suo contrabbasso sembra voler ricreare l’universo mondo, più che dare una interpretazione sonora del quadro esposto alle sue spalle. Grevi, acuti, ronzii, percussioni, silenzi armonie, cromature. Da quella creatura di legno sollecitata dalle mani di Chevillon esce davvero di tutto: l’archetto che increspa le corde, sibili prolungati, pizzicori tremanti, stridere delle dita sul legno della cassa armonica, e infine, dalla voce di Chevillon, in consonanza con la sottile malinconia della composizione, una poesia di Pier Paolo Pasolini, “Il giorno della mia morte”. Uno dei concerti più intensi del Festival.
Nel pomeriggio nel verde intenso di un altro luogo storico della città, il Parco dei Bambini ecco “Archipelagos” un interessante progetto della batterista Framcesca Remigi che trae ispirazione da alcuni scritti di Noam Chomski, Zygmunt Bauman ed altri. Quindi dopo il Parco, ci si ritrova nel Chiostro della Canonica con “She’s Analog” di Stefano Caldarano alla chitarra, Luca Sguerra al piano e Synt, Giovanni Iacovella alla batteria e all’elettronica. Grande capacità di passare dai ritmi e dai toni più duri a dolcezze infinite, una versatilità che non è propria di tutte le formazioni. I suoni del Synt di Sguerra trovano spesso il controcanto della chitarra di Stefano Calderano. Suggestioni profonde che non vengono solo dall’elettronica, ma che affondano le proprie radici anche nelle radici etniche (e folk) della musica. Ricordiamo in particolare i lavori di Luca Sguerra sulla musica africana, e queste suggestioni si sentono tutte e sembrano sposarsi magnificamente col luogo che accoglie il concerto, il magnifico quadriportico attiguo al Duomo di Novara che sul far della sera assume il suo aspetto più suggestivo. Un piccolo, meraviglioso gioiello (un altro) di questo Festival.
Si chiude questa edizione con una cannonata di concerto quello dell’Orchestre Tout Puissant Marcel Duchamp” (OTPMD). La bella voce di Liz Moscarola, apre il concerto con una ballata elettrica, ma niente paura da un ensemble così bisogna aspettarsi di tutto e sul palco di Novara Jazz, Bertholet e compagni mettono in scena principalmente l’abbattimento di tutti i confini e di tutte le barriere che suddividono i generi musicali. Se fossimo a teatro potremmo paragonarli alla Fura des Baus, per potenza scenica, alla cui base c’è una costante provocazione sonora, timbrica, vocale, una musica infarcita di citazioni musicali, non sempre individuabili ad un primo ascolto. Impossibile stare fermi, lo scopo delle OTPMD è quello di non arrendersi alla fatalità del mondo che si tratti della pandemia o della guerra. Testi dissacranti, come era ovvio, aspettarsi da un ensemble che si richiama orgogliosamente al padre del Dadaismo. C’è posto anche per ballate dolci e ritmiche, per un po’ di funk inacidito e di po’ punk ben conservato. Ed era proprio così che doveva concludersi questa straordinaria edizione del festival jazz novarese, ormai una creatura diventata adulta. I ringraziamenti non sono rituali ma sentiti, per aver saputo gettare il cuore oltre l’ostacolo.
E allora grazie a Corrado Beldì e Riccardo Cigolotti, ma anche a Enrico Bettinello coproduttore e insostituibile consulente artistico. Mancano solo 350 giorni alla prossima edizione…