Pit Coccato: un cuore diviso a metà tra Novara e Dublino

Tra una tappa e l'altra del tour incontriamo il giovane cantautore novarese che ci spiega come nasce una musica così carica di influenze

Cosa hanno in comune Tom Waits e Layne Staley, il frontman degli Alice in Chains? Apparentemente nulla. E ancora: che analogie ci sono fra Novara, Dublino e Seattle? Sostanzialmente non pare ci siano. Eppure, incrociando il cammino di Pietro Coccato, per tutti Pit Coccato, ci ritroviamo in un mondo ideale dove Waits canta Down in a hole degli Alice in Chains, mentre Staley armeggia una chitarra e segue le note di Downtown train – pezzo storico di Tom uscito nel 1985, il tutto in una città dove la cupola di San Gaudenzio svetta in O’Connel Street a pochi passi dallo Space Needle. Sì, perché il cantautore novarese ha mosso i primi passi in Irlanda, dove ha assorbito la grande storica del folk, per poi tornare in Italia e innamorarsi delle spigolature della musica indipendente, senza mai perdere di vista il grunge, nudo, crudo e tossico della città di smeraldo, Seattle. Così è nata una musica stratificata e multicolore, a tratti malinconica, dannata alla quale è davvero dura chiedere di più. Sì, perché in Pit Coccato c’è tutto, una voce disarmante per i suoi venticinque anni, un’intenzione sonica moderna e al tempo stesso attempata e il physique du rôle che non guasta mai, anzi.

Lo incontriamo, cappotto nero, jeans neri e stivaletti, a terra, vicino alle gambe una custodia a goccia di una chitarra acustica. «Sono abbastanza spettinato?» chiede, e iniziamo a parlare.

Capelli a parte, la tua carriera sembra viaggiare su binari certi: un ep autoprodotto e un disco già alle spalle, centinaia di date in tutta Italia e all’estero, palchi condivisi con mostri sacri della indie italiana come, Tre Allegri Ragazzi Morti, Godano, The Niro, Moltheni e molti altri. Insomma, non male…

Diciamo che come inizio non posso lamentarmi, no. Il mio ep, I can’t stand that radio playing, mi ha permesso di prendere le misure con la creatura musica. Con il primo disco, uscito a marzo 2020 e che ho titolato, What I Need, uscito per La Fabbrica e Blackcandy Produzioni, ho cristallizzato quello che il mio genere, il mio assetto.

A proposito: la tua musica è un pugno nello stomaco, con accezione ovviamente positiva: melodie ala Nutini, intenzioni di Tom Waits e un sentore malinconico e struggente del compianto Layne Stayle. Come diavolo hai fatto a mettere tutto insieme?
Innanzi tutto ti ringrazio di avermi accostato a questi nomi che hanno significato tanto per me. Avendo sempre ascoltato musica con il cuore è stato naturale miscelare tutte queste influenze in ciò che scrivo, perché fanno parte di me. Mi rendo conto che la sincerità sia un sentimento tanto sbandierato ultimamente, soprattutto se ci si nasconde dietro alla facciata dell’ “indie”, però quando hai passato la tua vita a scandagliare minuziosamente il panorama musicale mondiale è inevitabile portare dentro di sé tutti quegli artisti che suonicchiavi da solo, e male, in cameretta sognando di essere a Seattle.

C’è sempre un preciso istante nella carriera di un’artista in cui dice: sì, la mia vita è questa, è l’arte. Il tuo quando è stato?
Per me è stata una transizione. Dopo che sono tornato a vivere in Italia mi sono autoprodotto il primo EP e poco a poco ho iniziato a girare sempre più su scala nazionale finché non si sono interessate le etichette con le quali collaboro. Forse lo spartiacque è stato paradossalmente durante la pandemia, in un momento di crisi di tutto questo mondo. Quando più ho sentito mancare l’opportunità di suonare ho capito che se non avessi costruito questa piccola nicchia che mi consente di vomitare tutte queste emozioni nient’altro avrebbe senso.

Ti sei trovato a suonare con i migliori volti della scena indie italiana, c’è qualcuno che “corteggi” e che manca all’appello?
In realtà avendo sempre ascoltato musica anglofona la scoperta di tutti questi artisti pazzeschi che abbiamo in Italia è avvenuta per la maggior parte collaborandoci. Che secondo me è ancora meglio: perché ho avuto modo di conoscere prima il lato umano e poi quello artistico. All’appello ne mancano veramente tanti, ma se proprio dovessi puntare il dito direi gli Afterhours: secondo me siamo sulla stessa lunghezza d’onda su gusti musicali e acconciature improbabili [ride].

Svelaci un po’ dei tuoi progetti nuovi, ti va?
Attualmente sono in tour, a breve annuncio le nuove date che mi porteranno in giro almeno fino alla fine del 2022. Sto scrivendo e producendo un nuovo EP, un po’ a rilento dovrei darmi una mossa [ride]. E poi ho fondato con il mio amico Luca Pasquino, in arte Kuschimaru Sama, una nuova band: Le corse più pazze del mondo, di cui credo che sentirete parlare molto presto.

Devi preparare una capsula del tempo: che dischi ci metti dentro, a parte i tuoi, ovviamente?
Di diritto il primo posto se lo aggiudica Raindogs, il capolavoro di Tom Waits; poi direi Jason Molina con Magnolia Electric Co. , vera pietra miliare della musica indipendente; Crooked Rain, Crooked Rain dei Pavement che descrive ogni stato d’animo possibile dell’uomo secondo me; American Idiot dei Green day che mi ha letteralmente allevato sin da quando è uscito nel 2004; e per finire Ok Computer dei Radiohead che non ha bisogno di presentazioni. Per questioni di spazio della famosa capsula del tempo, direi di fermarmi qui, altrimenti continuerei fino a domani [ride].

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Pit Coccato: un cuore diviso a metà tra Novara e Dublino

Tra una tappa e l’altra del tour incontriamo il giovane cantautore novarese che ci spiega come nasce una musica così carica di influenze

Cosa hanno in comune Tom Waits e Layne Staley, il frontman degli Alice in Chains? Apparentemente nulla. E ancora: che analogie ci sono fra Novara, Dublino e Seattle? Sostanzialmente non pare ci siano. Eppure, incrociando il cammino di Pietro Coccato, per tutti Pit Coccato, ci ritroviamo in un mondo ideale dove Waits canta Down in a hole degli Alice in Chains, mentre Staley armeggia una chitarra e segue le note di Downtown train – pezzo storico di Tom uscito nel 1985, il tutto in una città dove la cupola di San Gaudenzio svetta in O’Connel Street a pochi passi dallo Space Needle. Sì, perché il cantautore novarese ha mosso i primi passi in Irlanda, dove ha assorbito la grande storica del folk, per poi tornare in Italia e innamorarsi delle spigolature della musica indipendente, senza mai perdere di vista il grunge, nudo, crudo e tossico della città di smeraldo, Seattle. Così è nata una musica stratificata e multicolore, a tratti malinconica, dannata alla quale è davvero dura chiedere di più. Sì, perché in Pit Coccato c’è tutto, una voce disarmante per i suoi venticinque anni, un’intenzione sonica moderna e al tempo stesso attempata e il physique du rôle che non guasta mai, anzi.

Lo incontriamo, cappotto nero, jeans neri e stivaletti, a terra, vicino alle gambe una custodia a goccia di una chitarra acustica. «Sono abbastanza spettinato?» chiede, e iniziamo a parlare.

Capelli a parte, la tua carriera sembra viaggiare su binari certi: un ep autoprodotto e un disco già alle spalle, centinaia di date in tutta Italia e all’estero, palchi condivisi con mostri sacri della indie italiana come, Tre Allegri Ragazzi Morti, Godano, The Niro, Moltheni e molti altri. Insomma, non male…

Diciamo che come inizio non posso lamentarmi, no. Il mio ep, I can’t stand that radio playing, mi ha permesso di prendere le misure con la creatura musica. Con il primo disco, uscito a marzo 2020 e che ho titolato, What I Need, uscito per La Fabbrica e Blackcandy Produzioni, ho cristallizzato quello che il mio genere, il mio assetto.

A proposito: la tua musica è un pugno nello stomaco, con accezione ovviamente positiva: melodie ala Nutini, intenzioni di Tom Waits e un sentore malinconico e struggente del compianto Layne Stayle. Come diavolo hai fatto a mettere tutto insieme?
Innanzi tutto ti ringrazio di avermi accostato a questi nomi che hanno significato tanto per me. Avendo sempre ascoltato musica con il cuore è stato naturale miscelare tutte queste influenze in ciò che scrivo, perché fanno parte di me. Mi rendo conto che la sincerità sia un sentimento tanto sbandierato ultimamente, soprattutto se ci si nasconde dietro alla facciata dell’ “indie”, però quando hai passato la tua vita a scandagliare minuziosamente il panorama musicale mondiale è inevitabile portare dentro di sé tutti quegli artisti che suonicchiavi da solo, e male, in cameretta sognando di essere a Seattle.

C’è sempre un preciso istante nella carriera di un’artista in cui dice: sì, la mia vita è questa, è l’arte. Il tuo quando è stato?
Per me è stata una transizione. Dopo che sono tornato a vivere in Italia mi sono autoprodotto il primo EP e poco a poco ho iniziato a girare sempre più su scala nazionale finché non si sono interessate le etichette con le quali collaboro. Forse lo spartiacque è stato paradossalmente durante la pandemia, in un momento di crisi di tutto questo mondo. Quando più ho sentito mancare l’opportunità di suonare ho capito che se non avessi costruito questa piccola nicchia che mi consente di vomitare tutte queste emozioni nient’altro avrebbe senso.

Ti sei trovato a suonare con i migliori volti della scena indie italiana, c’è qualcuno che “corteggi” e che manca all’appello?
In realtà avendo sempre ascoltato musica anglofona la scoperta di tutti questi artisti pazzeschi che abbiamo in Italia è avvenuta per la maggior parte collaborandoci. Che secondo me è ancora meglio: perché ho avuto modo di conoscere prima il lato umano e poi quello artistico. All’appello ne mancano veramente tanti, ma se proprio dovessi puntare il dito direi gli Afterhours: secondo me siamo sulla stessa lunghezza d’onda su gusti musicali e acconciature improbabili [ride].

Svelaci un po’ dei tuoi progetti nuovi, ti va?
Attualmente sono in tour, a breve annuncio le nuove date che mi porteranno in giro almeno fino alla fine del 2022. Sto scrivendo e producendo un nuovo EP, un po’ a rilento dovrei darmi una mossa [ride]. E poi ho fondato con il mio amico Luca Pasquino, in arte Kuschimaru Sama, una nuova band: Le corse più pazze del mondo, di cui credo che sentirete parlare molto presto.

Devi preparare una capsula del tempo: che dischi ci metti dentro, a parte i tuoi, ovviamente?
Di diritto il primo posto se lo aggiudica Raindogs, il capolavoro di Tom Waits; poi direi Jason Molina con Magnolia Electric Co. , vera pietra miliare della musica indipendente; Crooked Rain, Crooked Rain dei Pavement che descrive ogni stato d’animo possibile dell’uomo secondo me; American Idiot dei Green day che mi ha letteralmente allevato sin da quando è uscito nel 2004; e per finire Ok Computer dei Radiohead che non ha bisogno di presentazioni. Per questioni di spazio della famosa capsula del tempo, direi di fermarmi qui, altrimenti continuerei fino a domani [ride].

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