Sfumature pucciniane e solenni scenografie per la “Donna di veleni”

La storia è quella di una donna, la Donna di veleni appunto, maga, sapiente, guaritrice, che viene chiamata a risolvere i problemi di violenza e d’amore dei due protagonisti: Maria che le chiede di sfuggire alla sua sorte di donna violentata; Ruggero che con un filtro magico vuole ottenere l’amore che Maria gli nega. La Grande Madre, così verrà definita all’ultimo atto, offrirà un’unica coppa: a seconda di chi e perché la berrà, darà amore o morte. Tutto questo ambientato in un paese, pensato originariamente come siciliano del 1600, in realtà in uno spazio senza tempo tra uomini neri (le ombre) che rappresentano il dogma popolare di una religione repressiva, gli adolescenti vogliosi di scoprire, i paesani in balìa della povertà e della carestia.

Una premessa doverosa per una prima esecuzione assoluta, “Donna di veleni”, a cui non tutti hanno avuto la possibilità di assistere, andata in scena venerdì 14 febbraio al Teatro Coccia e che replica nel pomeriggio di oggi.

 

 

Ciò che coglie l’attenzione fin dalle prime battute è la musica composta da Marco Podda: un’orchestrazione armoniosa e ben proporzionata, dalle sfumature a tratti pucciniane. Per quanto riguarda la Dedalo Ensemble, precisa nella sua esecuzione, diretta dal maestro Vittorio Parisi, una menzione speciale va alle percussioni.

La donna di veleni, interpretata da Paoletta Marrocu, è una certezza senza esitazioni, con un’estensione vocale notevole, dalle note più gravi tipiche di un mezzosoprano agli acuti propri del soprano.

Il tenore Danilo Formaggia (Ruggero), volto noto al Coccia per avere “salvato” la produzione di Traviata della scorsa stagione interpretando Alfredo solo dalla prova generale in poi, è parso un po’ strozzato in alcuni punti, ma è riuscito a dare il meglio di sé nelle arie dell’ultima scena.

 

Un po’ acerba Julia Farres Llongueras, soprano, che ha vestito i panni di Maria: voce ben impostata ma senza venature, presenza scenica con buoni margini di miglioramento. Il secondo tenore Matteo Mezzaro (amante) ha dimostrato una buona preparazione nonostante l’impostazione troppo stridente nelle note alte.

Ottime le voci degli alunni dell’Accademia di canto lirico che hanno interpretato i cori dei giovani.

Il San Gregorio Magno, diretto dal maestro Mauro Rolfi, nonostante un ingresso maschile piuttosto incerto, si è poi dimostrato all’altezza vestendo la parte della voce del popolo, tra i protagonisti della storia.

Belli da vedere, piacevoli da ascoltare i bambini del coro di Voci Bianche diretti dal maestro Alberto Veggiotti, seppur la loro presenza, se pensata nell’ottica dell’economia di un’opera, non venga del tutto giustificata: un girotondo cantato alla fine delle quinta scena e una sola battuta (Die Grosse Muter ovvero la Grande Madre) nell’atto conclusivo.

Ciò che manca del tutto, invece, è l’azione scenico drammatica tipica del melodramma: la scena è statica anche quando interviene il coro, la donna di veleni è ferma sulla pedana, non c’è interazione tra i due protagonisti, nemmeno durante l’ultimo atto quando Ruggero, dopo aver bevuto la pozione, cade poco elegantemente morto a pancia in su.

Il libretto, di Emilio Jona, è classicissimo nella sua struttura: linguaggio operistico, rime baciate, espressioni profonde. Tra tutte vale la pena riproporre quella di Ruggero, appena prima di compiere drammaticamente la sua scelta: «Amare il tuo veleno sarà la mia morte e morire d’amore la mia sorte».

Un grande punto interrogativo, purtroppo, va messo vicino ai costumi incoerenti tra loro, privi di un file rouge che li accomuni, in particolare alcuni del coro femminile, l’impermeabile beige di Maria e la giacca da camera (ammesso che lo fosse) di Ruggero nella seconda parte.

Solenne e ben rappresentativa è la scenografia: l’imponente pedana al centro, prima talamo di Ruggero e Maria, poi trono della maga-strega-guaritrice la quale fa il suo primo ingresso comparendo da una porta che ricorda uno stargate. E poi le stoffe bianche e bordeaux che aiutano a rendere l’ambientazione sospesa nel tempo e nello spazio.

Splendido il gioco di luci e ombre proiettato sulla tela del baldacchino e sui pannelli laterali grazie alla maestria di Ivan Pastrovicchio, maestro delle luci, e agli ombristi Alice Del Bacco, Anna Guazzotti e Pierre Jacquemin.

Una produzione indubbiamente audace e coraggiosa, degna di essere riproposta, magari con qualche accorgimento, per un Teatro che vuole e deve guardare oltre i confini della propria città.

 

[photo credit Mario Finotti]

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Cecilia Colli

Novarese, giornalista professionista, ha lavorato per settimanali e tv. A La Voce di Novara ha il ruolo di direttore

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Sfumature pucciniane e solenni scenografie per la “Donna di veleni”

La storia è quella di una donna, la Donna di veleni appunto, maga, sapiente, guaritrice, che viene chiamata a risolvere i problemi di violenza e d’amore dei due protagonisti: Maria che le chiede di sfuggire alla sua sorte di donna violentata; Ruggero che con un filtro magico vuole ottenere l’amore che Maria gli nega. La Grande Madre, così verrà definita all’ultimo atto, offrirà un’unica coppa: a seconda di chi e perché la berrà, darà amore o morte. Tutto questo ambientato in un paese, pensato originariamente come siciliano del 1600, in realtà in uno spazio senza tempo tra uomini neri (le ombre) che rappresentano il dogma popolare di una religione repressiva, gli adolescenti vogliosi di scoprire, i paesani in balìa della povertà e della carestia.

Una premessa doverosa per una prima esecuzione assoluta, “Donna di veleni”, a cui non tutti hanno avuto la possibilità di assistere, andata in scena venerdì 14 febbraio al Teatro Coccia e che replica nel pomeriggio di oggi.

 

 

Ciò che coglie l’attenzione fin dalle prime battute è la musica composta da Marco Podda: un’orchestrazione armoniosa e ben proporzionata, dalle sfumature a tratti pucciniane. Per quanto riguarda la Dedalo Ensemble, precisa nella sua esecuzione, diretta dal maestro Vittorio Parisi, una menzione speciale va alle percussioni.

La donna di veleni, interpretata da Paoletta Marrocu, è una certezza senza esitazioni, con un’estensione vocale notevole, dalle note più gravi tipiche di un mezzosoprano agli acuti propri del soprano.

Il tenore Danilo Formaggia (Ruggero), volto noto al Coccia per avere “salvato” la produzione di Traviata della scorsa stagione interpretando Alfredo solo dalla prova generale in poi, è parso un po’ strozzato in alcuni punti, ma è riuscito a dare il meglio di sé nelle arie dell’ultima scena.

 

Un po’ acerba Julia Farres Llongueras, soprano, che ha vestito i panni di Maria: voce ben impostata ma senza venature, presenza scenica con buoni margini di miglioramento. Il secondo tenore Matteo Mezzaro (amante) ha dimostrato una buona preparazione nonostante l’impostazione troppo stridente nelle note alte.

Ottime le voci degli alunni dell’Accademia di canto lirico che hanno interpretato i cori dei giovani.

Il San Gregorio Magno, diretto dal maestro Mauro Rolfi, nonostante un ingresso maschile piuttosto incerto, si è poi dimostrato all’altezza vestendo la parte della voce del popolo, tra i protagonisti della storia.

Belli da vedere, piacevoli da ascoltare i bambini del coro di Voci Bianche diretti dal maestro Alberto Veggiotti, seppur la loro presenza, se pensata nell’ottica dell’economia di un’opera, non venga del tutto giustificata: un girotondo cantato alla fine delle quinta scena e una sola battuta (Die Grosse Muter ovvero la Grande Madre) nell’atto conclusivo.

Ciò che manca del tutto, invece, è l’azione scenico drammatica tipica del melodramma: la scena è statica anche quando interviene il coro, la donna di veleni è ferma sulla pedana, non c’è interazione tra i due protagonisti, nemmeno durante l’ultimo atto quando Ruggero, dopo aver bevuto la pozione, cade poco elegantemente morto a pancia in su.

Il libretto, di Emilio Jona, è classicissimo nella sua struttura: linguaggio operistico, rime baciate, espressioni profonde. Tra tutte vale la pena riproporre quella di Ruggero, appena prima di compiere drammaticamente la sua scelta: «Amare il tuo veleno sarà la mia morte e morire d’amore la mia sorte».

Un grande punto interrogativo, purtroppo, va messo vicino ai costumi incoerenti tra loro, privi di un file rouge che li accomuni, in particolare alcuni del coro femminile, l’impermeabile beige di Maria e la giacca da camera (ammesso che lo fosse) di Ruggero nella seconda parte.

Solenne e ben rappresentativa è la scenografia: l’imponente pedana al centro, prima talamo di Ruggero e Maria, poi trono della maga-strega-guaritrice la quale fa il suo primo ingresso comparendo da una porta che ricorda uno stargate. E poi le stoffe bianche e bordeaux che aiutano a rendere l’ambientazione sospesa nel tempo e nello spazio.

Splendido il gioco di luci e ombre proiettato sulla tela del baldacchino e sui pannelli laterali grazie alla maestria di Ivan Pastrovicchio, maestro delle luci, e agli ombristi Alice Del Bacco, Anna Guazzotti e Pierre Jacquemin.

Una produzione indubbiamente audace e coraggiosa, degna di essere riproposta, magari con qualche accorgimento, per un Teatro che vuole e deve guardare oltre i confini della propria città.

 

[photo credit Mario Finotti]

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Novarese, giornalista professionista, ha lavorato per settimanali e tv. A La Voce di Novara ha il ruolo di direttore