Venerdì 20 gennaio il Teatro Coccia ha inaugurato la nuova stagione con il Trovatore di Giuseppe Verdi. Una vera Prima post Covid con una propria produzione realizzata in collaborazione con Jesi, Rovigo e Treviso e che ha debuttato lo scorso mese di ottobre proprio al Pergolesi.
Il Teatro era finalmente pieno di novaresi e non, circostanza che non può che rendere felici al di là dell’esito dello spettacolo. Che comunque al pubblico è piaciuto, dimostrandolo ampiamente negli applausi finali.
La regista Deda Cristina Colonna, in sede di presentazione, aveva dichiarato di aver studiato a fondo il libretto, e l’ha dimostrato. Per sua stessa ammissione più esperta del periodo barocco e contemporaneo, Colonna non ha comunque deluso le aspettative inserendo in modo intelligente il tratto gotico e onirico che contraddistingue i suoi lavori in un’opera verdiana dalle innumerevoli interpretazioni. Una scena lineare ed essenziale – forse in alcuni momenti anche troppo – che lascia allo spettatore la libertà di aggiungere ciò che non è esplicitamente messo in scena.
La regista aveva anche annunciato elementi dell’iconografia quattrocentesca e le attese non sono state deluse: scorci che richiamano Mantegna e Piero della Francesca, in particolare nelle scene tra Manrico e Azucena e tra Manrico e Leonora. Nell’atto finale pare di vedere anche un tratto di Michelangelo dove Azucena abbraccia il corpo morto di Leonora in una sorta di Pietà laica.
Difficile da cogliere, invece, una spiegazione simbolica o semplicemente una bellezza scenografica nella zingara che, nella grande scena all’inizio del secondo atto, batte i piedi per terra nel tentativo di imitare un flamenco e copre con il rumore le meravigliose note verdiane.
Deludenti, purtroppo, i costumi, seppur dal sapore quattrocentesco: copricapi visivamente pesantissimi sulle teste di Ferrando e del Conte a ingigantire la forma delle orecchie, colori discutibili smarriti su una scena già neutra, turbanti di dubbio gusto per le zingare, criticabili “divise” per il coro maschile.
Nel cast vocale, spicca il giovane baritono Jorge Nelson Martinez Gonzalez (il Conte) che fin dalle prime battute ha imposto un timbro deciso e potente, con un ottimo controllo del colore e del fiato. L’uruguaiano Gaston Rivero (Manrico), tenore di esperienza tipicamente verdiano, ha dato prova di tutta l’ampiezza vocale di cui necessita una parte tanto impegnativa. Un po’ troppo forzato nell’azione scenica.
Apprezzabile il bulgaro Deyan Vatchkov (Ferrando) nel dialogo di apertura con il coro, nonostante abbia osato poco nelle note gravi.
Dopo un inizio un po’ debole, Sara Cortolezzis (Leonora) ha dato prova di bravura con acuti controllati e accenti limpidi. Nonostante un paio di sbavature nelle note alte nel secondo e nell’ultimo atto, Carmen Topciu (Azucena) ha dimostrato di avere una voce piena e possente in particolare nei toni medio bassi.
Complessivamente buone anche le interpretazioni di Francesco Marsiglia (Ruiz) e Yo Otahara (Ines).
Da segnalare il coro AsLiCo (Associazione Lirica e Concertistica) diretto dal Maestro Massimo Fiocchi Malaspina, in particolare le voci femminili.
Una fortuna, infine, per il Coccia avere in buca il Maestro Antonello Allemandi che ha guidato con saggezza e competenza l’orchestra Filarmonica Italiana.
Dopo la replica di sabato 21 con un diverso cast, lo spettacolo va in scena anche oggi pomeriggio, domenica 22, con lo stesso cast di venerdì. Per il prossimo appuntamento operistico al Coccia si dovrà attendere fino a maggio: dal 12 al 14 è in programma Il Barbiere di Siviglia.
(ph Mario Finotti)
Una risposta
Bell’articolo, chiaro e condivisibile. Veramente bravo il Direttore d’orchestra. Bella, anche se davvero fin troppo essenziale,la scenografia. Le voci direi dignitose (da seguire l’evoluzione della soprano). Bruttini i costumi. Ottima critica comunque