Generazione La Voce. “Memoria è anche un luogo” con Saverio Colacicco

Intervista al giovane novarese referente delle attività educative del Memoriale della Shoah di Milano in occasione del 27 gennaio

Ha 29 anni, è di Trecate ma vive a Novara. Ha una laurea magistrale in Scienze storiche e, nonostante la giovane età, già ricopre un ruolo di prestigio. Lui è Saverio Colaciccio, protagonista della seconda puntata della rubrica “Generazione La Voce“, ed è il referente delle attività educative del Memoriale della Shoah di Milano, un luogo unico nel suo genere, che si trova sotto i binari della stazione centrale: originariamente era adibito alla movimentazione dei vagoni postali, ma tra il 1943 e il 1945 è stato trasformato nel luogo in cui migliaia di ebrei e oppositori politici venivano caricati su vagoni merci e trasportati nei campi di concentramento.

Saverio, qual è il tuo percorso e come sei arrivato qui?
Per me questo è un luogo di studio e lavoro. Attualmente sto svolgendo un dottorato all’università di Milano in Studi storici, una specializzazione su ambiti tematici che riguardano la persecuzione antiebraica e la spogliazione dei beni ebraici. Sono arrivato qui attraverso un stage lavorativo, nel 2019, dopo un master di primo livello tra l’università e Fondazione Feltrinelli e sono diventato una guida e dopo questo percorso di formazione che è durato due anni e mezzo. Ho poi iniziato a collaborare con le attività educative, coordinato insieme agli altri colleghi, dalla professoressa Milena Santerini, vicepresidente della Fondazione del Memoriale e docente di Pedagogia all’università Cattolica. L’utenza alla quale ci rivolgiamo è molto ampia: abbiamo circa 130 mila visitatori l’anno di cui circa 60 mila studenti.

Di cosa ti occupi?
Ho due ruoli, uno meno po’ meno concreto che riguarda l’organizzazione, l’accesso e la fruizione del luogo quindi la le prenotazioni tutto ciò che è molto concreto di visita; l’altro la progettazione educativa che riguarda la consulenza alle scuole, sia per i percorsi che vengono fatti qui che direttamente negli istituti. Qui siamo nell’aula didattica che può contenere fino a cinquanta persone. Abbiamo due tipi di attività didattiche, una dedicata alle scuole elementari e medie, un’altra alle superiori; l’idea è quella di offrire un ulteriore strumento di comprensione oltre la visita, uno strumento di rielaborazione di quello che è stato visto e sentito o di quello che già conoscono. La visita dura circa 50 minuti e si propone un’attività della durata simile su filmati e documenti di archivio.

Cosa ti ha spinto dopo il tuo percorso di studi a restare a lavorare in questo luogo?
Tutto nasce da un’intervista fatta a Casale Monferrato ad alcuni sopravvissuti, in particolare a una coppia che era scampata alla legislazione razziale. L’incontro con questo luogo è venuto quasi naturalmente e comunque penso che i luoghi che visitiamo e nei quali lavoriamo dicano qualcosa. C’era poi un ulteriore interesse estremamente tecnico, cioè capire come all’interno della città più importante d’Italia fosse avvenuto tutto questo da parte di italiani. Solitamente il racconto è spostato sulla Germania nazista; è invece molto interessante scoprire come tutto questo avvenne per volontà italiana.

Quando si entra al Memoriale si viene accolti da un’enorme parete su cui è incisa la parola “indifferenza”.
È un’installazione voluta dalla senatrice Liliana Segre che da qui, quando aveva 13 anni, era stata caricata sul secondo convoglio, quello del 30 gennaio 1944. Un simbolo che rappresenta il riassunto di quello che è stata la deportazione ebraica europea quando una buona parte della popolazione italiana ed europea si era girata dall’altra parte. Se non fosse rimasta indifferente – in inglese si chiamano baystander, cioè coloro che sanno ma non fanno nulla – probabilmente le dimensioni della devastazione sarebbe stata sicuramente diversa.

Questo luogo si chiama Memoriale e non museo. C’è una differenza?
Intanto è l’unico di deportazione rimasto intatto in Europa e visitabile. Ma la differenza sostanziale sta nel fatto che i musei di qualunque tipo accolgono delle collezioni all’interno di un percorso espositivo. Il Memoriale, invece, non accoglie nulla: spesso i visitatori sono sorpresi di non trovare cose che trovano in altri luoghi. Qui è tutto racconto: il luogo è memoriale perché racconta la storia che ha vissuto con poche intermediazioni.

Il Memoriale si trova esattamente sotto la stazione centrale di Milano. Come è strutturato?
Non c’è collegamento diretto, ma è facilmente raggiungibile. Sono 7000 metri quadrati, con due sezioni, una piana strada, l’altra interrata, e c’è la possibilità di affrontare tutto il percorso più volte e anche in diverse direzione. Una delle ultime installazioni è “la stanza della riflessione”, luogo caratteristico dove vengono salutati i visitatori, un luogo di speranza, orientato verso Gerusalemme in cui i tre monoteismi – ebraismo, islam e cristianesimo – si incontrano. Un luogo che arriva dopo un percorso di dolore e di fatica che vuole lasciare un messaggio di speranza. Si inizia con l’indifferenza e si conclude con la speranza.

Una delle aree più coinvolgenti è quella seminterrata, dove si attraversano i binari e dove ancora ci sono i convogli originali. Alle spalle è stato costruito il Muro dei nomi. Di cosa si tratta?
Una parete che riporta i nomi di 774 persone deportate: non è il numero totale, ma solo una rappresentanza in memoria di tutti. Sono i nomi su cui si è riusciti a fare delle ricerche e a raccogliere delle informazioni. Sono tutti stati deportati per motivi razziali, quindi ebrei, con il convoglio nel dicembre del 43 e il 30 gennaio del 44 da Milano verso Auschwitz. I cognomi che si vedono sono tipicamente di origine ebraica, alcuni italiani altri stranieri, tedeschi e austriaci, dove già dal 35 erano operative le leggi di Norimberga. Molti erano arrivati in Italia convinti che il fascismo li avrebbe protetti, invece tre anni dopo viene promulgata la legislazione antiebraica e anche loro sono considerati soggetti stranieri. In bianco si leggono i nomi delle persone che sono partite e che non sono mai tornate a casa, in arancione quelli delle persone sopravvissute: sono 27 su 774, un contrasto molto forte.

Siamo a gennaio 2025, il 27 si celebra il Giorno della Memoria. Sono trascorsi ottant’anni da quel periodo: dopo quasi un un secolo quali studi e quali ricerche si devono ancora compiere per indagare meglio quello che è successo?
La storiografia internazionale ha dedicato molta attenzione al caso italiano, in particolare al fascismo e all’applicazione delle leggi razziali antiebraiche. Questo studio si concentra soprattutto sul periodo dal 1938 al 1945, considerato il periodo “canonico” della persecuzione, sia dei diritti sia delle vite degli ebrei. Tuttavia, è altrettanto interessante approfondire ciò che è avvenuto dopo il 1945, un periodo spesso trascurato. Dopo la fine della guerra, infatti, si è aperta la complessa questione delle riparazioni, delle restituzioni e delle riammissioni dei beni confiscati. È passato ormai quasi un ventennio dalla creazione della Commissione Anselmi che ha cercato di ricostruire le fasi della spoliazione economica degli ebrei. Questo argomento è stato molto studiato dagli storici, ma non ha avuto la stessa risonanza a livello di consapevolezza collettiva.

Perchè spesso si pensa che tutto sia finito con la liberazione dei campi di concentramento e con il ritorno dei sopravvissuti..
Ma non è affatto così. Il periodo successivo al 1945, fino alla metà degli anni Cinquanta, è cruciale per comprendere come lo Stato italiano abbia cercato di affrontare le responsabilità del passato e riparare ai danni. Un tema fondamentale è quello delle scelte fatte dalla comunità ebraica sopravvissuta: chi ha deciso di rimanere, chi è tornato, e come queste decisioni hanno influito sulla ricostruzione delle loro vite. Questi aspetti, di grande rilevanza storica e civile, sono ancora oggi oggetto di studio e dibattito, soprattutto in Italia, dove si sente il bisogno di maggiore consapevolezza su questi temi. Va detto che nelle scuole italiane, grazie all’introduzione del Giorno della Memoria, questi argomenti vengono affrontati, anche se spesso in modo rapido, legato al programma scolastico sulla Seconda guerra mondiale. È importante però collegare gli eventi della persecuzione a un quadro più ampio, che comprenda non solo il periodo tra il 1943 e il 1945, ma anche gli anni precedenti: come si è arrivati alla deportazione? Quali sono state le responsabilità del fascismo, oltre a quelle del nazionalsocialismo? Negli ultimi anni sono stati fatti passi avanti, ma c’è ancora molto da indagare, sia in Italia sia nel resto d’Europa.

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Cecilia Colli

Novarese, giornalista professionista, ha lavorato per settimanali e tv. A La Voce di Novara ha il ruolo di direttore

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Generazione La Voce. “Memoria è anche un luogo” con Saverio Colacicco

Intervista al giovane novarese referente delle attività educative del Memoriale della Shoah di Milano in occasione del 27 gennaio

Ha 29 anni, è di Trecate ma vive a Novara. Ha una laurea magistrale in Scienze storiche e, nonostante la giovane età, già ricopre un ruolo di prestigio. Lui è Saverio Colaciccio, protagonista della seconda puntata della rubrica “Generazione La Voce“, ed è il referente delle attività educative del Memoriale della Shoah di Milano, un luogo unico nel suo genere, che si trova sotto i binari della stazione centrale: originariamente era adibito alla movimentazione dei vagoni postali, ma tra il 1943 e il 1945 è stato trasformato nel luogo in cui migliaia di ebrei e oppositori politici venivano caricati su vagoni merci e trasportati nei campi di concentramento.

Saverio, qual è il tuo percorso e come sei arrivato qui?
Per me questo è un luogo di studio e lavoro. Attualmente sto svolgendo un dottorato all’università di Milano in Studi storici, una specializzazione su ambiti tematici che riguardano la persecuzione antiebraica e la spogliazione dei beni ebraici. Sono arrivato qui attraverso un stage lavorativo, nel 2019, dopo un master di primo livello tra l’università e Fondazione Feltrinelli e sono diventato una guida e dopo questo percorso di formazione che è durato due anni e mezzo. Ho poi iniziato a collaborare con le attività educative, coordinato insieme agli altri colleghi, dalla professoressa Milena Santerini, vicepresidente della Fondazione del Memoriale e docente di Pedagogia all’università Cattolica. L’utenza alla quale ci rivolgiamo è molto ampia: abbiamo circa 130 mila visitatori l’anno di cui circa 60 mila studenti.

Di cosa ti occupi?
Ho due ruoli, uno meno po’ meno concreto che riguarda l’organizzazione, l’accesso e la fruizione del luogo quindi la le prenotazioni tutto ciò che è molto concreto di visita; l’altro la progettazione educativa che riguarda la consulenza alle scuole, sia per i percorsi che vengono fatti qui che direttamente negli istituti. Qui siamo nell’aula didattica che può contenere fino a cinquanta persone. Abbiamo due tipi di attività didattiche, una dedicata alle scuole elementari e medie, un’altra alle superiori; l’idea è quella di offrire un ulteriore strumento di comprensione oltre la visita, uno strumento di rielaborazione di quello che è stato visto e sentito o di quello che già conoscono. La visita dura circa 50 minuti e si propone un’attività della durata simile su filmati e documenti di archivio.

Cosa ti ha spinto dopo il tuo percorso di studi a restare a lavorare in questo luogo?
Tutto nasce da un’intervista fatta a Casale Monferrato ad alcuni sopravvissuti, in particolare a una coppia che era scampata alla legislazione razziale. L’incontro con questo luogo è venuto quasi naturalmente e comunque penso che i luoghi che visitiamo e nei quali lavoriamo dicano qualcosa. C’era poi un ulteriore interesse estremamente tecnico, cioè capire come all’interno della città più importante d’Italia fosse avvenuto tutto questo da parte di italiani. Solitamente il racconto è spostato sulla Germania nazista; è invece molto interessante scoprire come tutto questo avvenne per volontà italiana.

Quando si entra al Memoriale si viene accolti da un’enorme parete su cui è incisa la parola “indifferenza”.
È un’installazione voluta dalla senatrice Liliana Segre che da qui, quando aveva 13 anni, era stata caricata sul secondo convoglio, quello del 30 gennaio 1944. Un simbolo che rappresenta il riassunto di quello che è stata la deportazione ebraica europea quando una buona parte della popolazione italiana ed europea si era girata dall’altra parte. Se non fosse rimasta indifferente – in inglese si chiamano baystander, cioè coloro che sanno ma non fanno nulla – probabilmente le dimensioni della devastazione sarebbe stata sicuramente diversa.

Questo luogo si chiama Memoriale e non museo. C’è una differenza?
Intanto è l’unico di deportazione rimasto intatto in Europa e visitabile. Ma la differenza sostanziale sta nel fatto che i musei di qualunque tipo accolgono delle collezioni all’interno di un percorso espositivo. Il Memoriale, invece, non accoglie nulla: spesso i visitatori sono sorpresi di non trovare cose che trovano in altri luoghi. Qui è tutto racconto: il luogo è memoriale perché racconta la storia che ha vissuto con poche intermediazioni.

Il Memoriale si trova esattamente sotto la stazione centrale di Milano. Come è strutturato?
Non c’è collegamento diretto, ma è facilmente raggiungibile. Sono 7000 metri quadrati, con due sezioni, una piana strada, l’altra interrata, e c’è la possibilità di affrontare tutto il percorso più volte e anche in diverse direzione. Una delle ultime installazioni è “la stanza della riflessione”, luogo caratteristico dove vengono salutati i visitatori, un luogo di speranza, orientato verso Gerusalemme in cui i tre monoteismi – ebraismo, islam e cristianesimo – si incontrano. Un luogo che arriva dopo un percorso di dolore e di fatica che vuole lasciare un messaggio di speranza. Si inizia con l’indifferenza e si conclude con la speranza.

Una delle aree più coinvolgenti è quella seminterrata, dove si attraversano i binari e dove ancora ci sono i convogli originali. Alle spalle è stato costruito il Muro dei nomi. Di cosa si tratta?
Una parete che riporta i nomi di 774 persone deportate: non è il numero totale, ma solo una rappresentanza in memoria di tutti. Sono i nomi su cui si è riusciti a fare delle ricerche e a raccogliere delle informazioni. Sono tutti stati deportati per motivi razziali, quindi ebrei, con il convoglio nel dicembre del 43 e il 30 gennaio del 44 da Milano verso Auschwitz. I cognomi che si vedono sono tipicamente di origine ebraica, alcuni italiani altri stranieri, tedeschi e austriaci, dove già dal 35 erano operative le leggi di Norimberga. Molti erano arrivati in Italia convinti che il fascismo li avrebbe protetti, invece tre anni dopo viene promulgata la legislazione antiebraica e anche loro sono considerati soggetti stranieri. In bianco si leggono i nomi delle persone che sono partite e che non sono mai tornate a casa, in arancione quelli delle persone sopravvissute: sono 27 su 774, un contrasto molto forte.

Siamo a gennaio 2025, il 27 si celebra il Giorno della Memoria. Sono trascorsi ottant’anni da quel periodo: dopo quasi un un secolo quali studi e quali ricerche si devono ancora compiere per indagare meglio quello che è successo?
La storiografia internazionale ha dedicato molta attenzione al caso italiano, in particolare al fascismo e all’applicazione delle leggi razziali antiebraiche. Questo studio si concentra soprattutto sul periodo dal 1938 al 1945, considerato il periodo “canonico” della persecuzione, sia dei diritti sia delle vite degli ebrei. Tuttavia, è altrettanto interessante approfondire ciò che è avvenuto dopo il 1945, un periodo spesso trascurato. Dopo la fine della guerra, infatti, si è aperta la complessa questione delle riparazioni, delle restituzioni e delle riammissioni dei beni confiscati. È passato ormai quasi un ventennio dalla creazione della Commissione Anselmi che ha cercato di ricostruire le fasi della spoliazione economica degli ebrei. Questo argomento è stato molto studiato dagli storici, ma non ha avuto la stessa risonanza a livello di consapevolezza collettiva.

Perchè spesso si pensa che tutto sia finito con la liberazione dei campi di concentramento e con il ritorno dei sopravvissuti..
Ma non è affatto così. Il periodo successivo al 1945, fino alla metà degli anni Cinquanta, è cruciale per comprendere come lo Stato italiano abbia cercato di affrontare le responsabilità del passato e riparare ai danni. Un tema fondamentale è quello delle scelte fatte dalla comunità ebraica sopravvissuta: chi ha deciso di rimanere, chi è tornato, e come queste decisioni hanno influito sulla ricostruzione delle loro vite. Questi aspetti, di grande rilevanza storica e civile, sono ancora oggi oggetto di studio e dibattito, soprattutto in Italia, dove si sente il bisogno di maggiore consapevolezza su questi temi. Va detto che nelle scuole italiane, grazie all’introduzione del Giorno della Memoria, questi argomenti vengono affrontati, anche se spesso in modo rapido, legato al programma scolastico sulla Seconda guerra mondiale. È importante però collegare gli eventi della persecuzione a un quadro più ampio, che comprenda non solo il periodo tra il 1943 e il 1945, ma anche gli anni precedenti: come si è arrivati alla deportazione? Quali sono state le responsabilità del fascismo, oltre a quelle del nazionalsocialismo? Negli ultimi anni sono stati fatti passi avanti, ma c’è ancora molto da indagare, sia in Italia sia nel resto d’Europa.

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Novarese, giornalista professionista, ha lavorato per settimanali e tv. A La Voce di Novara ha il ruolo di direttore