Chi affrontasse la lettura del nuovo libro di Eugenio Borgna, “Il Fiume della vita”, uscito qualche settimana fa ed edito da Feltrinelli, non avrebbe certo bisogno del sottotitolo, “Una storia interiore”, per comprendere che questo, come tutti gli altri volumi del grande psichiatra, in realtà, tratta tutti i temi professionali come facenti parte della sua vita interiore, spirituale ed intellettuale.
Nel libro non si colgono nuovi spunti o suggestioni, rispetto a quanto letto in passato, ma si sente molto più forte il desiderio di ribadire quanto già scritto, e di fissarlo nuovamente nella scrittura, come se qualcosa sembrasse sfuggito al grande psichiatra novarese. Il racconto dell’infanzia, della gioventù, degli studi, della professione, col consueto riferimento al lavoro svolto presso il manicomio di Novara, che Borgna non chiama mai “ospedale psichiatrico”, oltre alla grande riforma di Franco Basaglia, sono i temi cruciali del libro.
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Una vita che non sarebbe corretto definire appassionante, seppur nutrita di passione e di “com-passione” verso i malati. La chiave di lettura di tutto il suo pensiero può ben riassumersi in questi due paradigmi: l’approccio al malato di tipo emozionale e compassionevole, nel senso più completo del termine, e la rispondenza dalla sofferenza psichica con grandi opere della letteratura e del pensiero. Borgna non è uno saggista di lungo corso, come lui stesso ricorda, avendo incominciato a scrivere tardi, quando i gravosi impegni presso il manicomio di Novara glielo hanno permesso.
Questo suo tipo di approccio alla demenza, è certamente retaggio della grande rivoluzione basagliana degli anni Settanta, periodo in cui, contro tutto e tutti, Franco Basaglia combatteva per ribadire come il manicomio non potesse curare e che il solo approccio farmacologico e anche psichiatrico non bastasse. Ribadisce con forza Borgna: “Non è possibile fare psichiatria se non ci si educa a nutrire la nostra vita di ascolto e di gentilezza, di saggezza e di tenerezza, e anche ad abdicare ad ogni forma di noncuranza e di indifferenza…”. Borgna sembra nutrirsi dell’urgenza del ricordo, patrimonio a cui attingono le persone avanti negli anni, poiché è questa la loro grande ricchezza.
E così scorrono nel libro tante citazioni dai suoi autori più amati da Hölderlin a Sylvia Plath, da Rilke a Schopenauer; ed è lo stesso autore ad ammettere che “I libri hanno cambiato il mio modo di riflettere sull’angoscia e sulla tristezza, sulle attese e sulle speranze infrante.” Ma è nel capitolo intitolato “De senectute” che sembra scorgersi la vera novità di questo ennesimo libro di Eugenio Borgna; le riflessioni sulla vecchiaia, sulla malinconia di questa età della vita, guardata con una angosciata serenità, se mi si concede l’ossimoro.
Per farlo Borgna cerca conferme negli autori prediletti e maggiormente frequentati e sembra riconoscersi completamente nelle parole di Arthur Schopenhauer quando scrive: “Solo nella tarda vecchiaia l’uomo raggiunge veramente l’oraziano ‘nil admirari’, cioè la convinzione immediata, sincera e sicura della vanità di tutte le magnificenze del mondo: le chimere sono sparite. Egli non crede più che da qualche parte, in un palazzo o in una capanna, abiti una felicità particolare…”. Libro triste, per questo necessario.