Il virus che rende folli

“Torna Michel Foucault”, così si intitola il primo capitolo del volumetto di Bernard-Henri Lévy, edito da “La Nave di Teseo”, intitolato a sua volta “Il virus rende folli”. Perché questo virus renderebbe folli? Semplice, per l’ex “nouveau philosophe”, e sulla scorta del pensiero di Foucault, la follia a cui si fa cenno, sarebbe quella che ha portato i governi di mezzo mondo ad operare una serie di limitazioni delle libertà personali per combattere la pandemia. Teoria non nuovissima e per dire la verità anche un po’ claudicante, poiché l’alternativa a queste limitazioni, com’è noto, sarebbe stata, ed è ancora è, l’ecatombe.

Naturalmente Bernard-Henri Lévy non è uno sprovveduto e l’opinione è complessa, articolata e supportata da ragioni anche fondate e sottende ad una domanda di fondo, non solo legittima, ma anche necessaria: “Siamo sicuri che questo valga solo nel momento della pandemia? Non è una tendenza forte della nostra società?” E del resto è proprio lo stesso autore ad essere rimasto vittima di quel “sorvegliare e punire” tanto caro a Foucault e trasmigrato in maniera pervasiva nell’universo dei social network; scrive Lévy: “…Quando ‘Paris-Match’ ha pubblicato il mio rapporto sul Bangladesh e i ritardi nella stampa hanno fatto sì che l’articolo uscisse dopo l’inizio del lockdown, ho visto gonfiarsi sui cosiddetti social network, sempre più spesso reti asociali, una piccola onda intorno al tema: cosa fai nel golfo del Bengala invece di restare a casa?“.

 

 

Preoccupazioni legittime quelle di Lévy, che poi però si perde in un ostinato complottismo dove gli aiuti russi divengono il cavallo di Troia dell’ex impero del male e dove l’Europa è, alternativamente matrigna e salvatrice, e dove, soprattutto, è Xi Jinping il vero burattinaio della pandemia mondiale, che se è pur vero che per settimane è riuscito a nascondere i dati della catastrofe, risulta però difficile pensare ad una “Spectre” cinese che architetta e fa adottare subdolamente un lockdown al mondo intero con la complicità dell’OMS, per vincere la battaglia della globalizzazione. Francamente un po’ troppo fantasioso.

Le parole finali che incitano l’umanità intera a resistere alla tentazione di credere di essere liberi perché sazi di beni materiali, se da un lato sono condivisibili, dall’altro stridono per l’apodittica esortazione finale: “Questa è la lezione del virus!” Bernard-Henri Lévy sembra addirittura cadere in una banale contraddizione poiché è lui stesso ad affermare, nella prima parte del libro che “…C’è l’assurda idea che il virus ci parli, che abbia un messaggio da consegnarci…” Eh no, se il virus, come credo e come sembra credere lo stesso Lévy, non ha messaggi da consegnarci, non può nemmeno essere che abbia lezioni da impartirci, siamo semmai noi a leggere negli accadimenti, quello che ci fa più comodo leggere per suffragare convinzioni, idee o ideologie che giacciono già in noi, dormienti o meno…

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Mario Grella

Nato a Novara, vissuto mentalmente a Parigi, continua a credere che la vita reale sia un ottimo surrogato del web.

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Il virus che rende folli

“Torna Michel Foucault”, così si intitola il primo capitolo del volumetto di Bernard-Henri Lévy, edito da “La Nave di Teseo”, intitolato a sua volta “Il virus rende folli”. Perché questo virus renderebbe folli? Semplice, per l’ex “nouveau philosophe”, e sulla scorta del pensiero di Foucault, la follia a cui si fa cenno, sarebbe quella che ha portato i governi di mezzo mondo ad operare una serie di limitazioni delle libertà personali per combattere la pandemia. Teoria non nuovissima e per dire la verità anche un po’ claudicante, poiché l’alternativa a queste limitazioni, com’è noto, sarebbe stata, ed è ancora è, l’ecatombe.

Naturalmente Bernard-Henri Lévy non è uno sprovveduto e l’opinione è complessa, articolata e supportata da ragioni anche fondate e sottende ad una domanda di fondo, non solo legittima, ma anche necessaria: “Siamo sicuri che questo valga solo nel momento della pandemia? Non è una tendenza forte della nostra società?” E del resto è proprio lo stesso autore ad essere rimasto vittima di quel “sorvegliare e punire” tanto caro a Foucault e trasmigrato in maniera pervasiva nell’universo dei social network; scrive Lévy: “…Quando ‘Paris-Match’ ha pubblicato il mio rapporto sul Bangladesh e i ritardi nella stampa hanno fatto sì che l’articolo uscisse dopo l’inizio del lockdown, ho visto gonfiarsi sui cosiddetti social network, sempre più spesso reti asociali, una piccola onda intorno al tema: cosa fai nel golfo del Bengala invece di restare a casa?“.

 

 

Preoccupazioni legittime quelle di Lévy, che poi però si perde in un ostinato complottismo dove gli aiuti russi divengono il cavallo di Troia dell’ex impero del male e dove l’Europa è, alternativamente matrigna e salvatrice, e dove, soprattutto, è Xi Jinping il vero burattinaio della pandemia mondiale, che se è pur vero che per settimane è riuscito a nascondere i dati della catastrofe, risulta però difficile pensare ad una “Spectre” cinese che architetta e fa adottare subdolamente un lockdown al mondo intero con la complicità dell’OMS, per vincere la battaglia della globalizzazione. Francamente un po’ troppo fantasioso.

Le parole finali che incitano l’umanità intera a resistere alla tentazione di credere di essere liberi perché sazi di beni materiali, se da un lato sono condivisibili, dall’altro stridono per l’apodittica esortazione finale: “Questa è la lezione del virus!” Bernard-Henri Lévy sembra addirittura cadere in una banale contraddizione poiché è lui stesso ad affermare, nella prima parte del libro che “…C’è l’assurda idea che il virus ci parli, che abbia un messaggio da consegnarci…” Eh no, se il virus, come credo e come sembra credere lo stesso Lévy, non ha messaggi da consegnarci, non può nemmeno essere che abbia lezioni da impartirci, siamo semmai noi a leggere negli accadimenti, quello che ci fa più comodo leggere per suffragare convinzioni, idee o ideologie che giacciono già in noi, dormienti o meno…

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