Jacob Yi è un giovane agricoltore sudcoreano trapiantato negli USA e con lui è trapiantato anche il “minari” ovvero una specie di prezzemolo asiatico. Cosa altro racconta il film di Lee Isaac  Chung? Poco altro, ma lo racconta bene; lo racconta come Ken Loach avrebbe raccontato delle asperità della vita di un minatore gallese, senza però fare riferimento alcuno al conflitto sociale, alla lotta di classe che forse per Loach esiste ancora e per Chung non è mai esistita, sostituita dalle vicende ricamate dal destino.

Il film del regista coreano è uscito nelle sale (si fa per dire), il 26 aprile scorso, ma naturalmente è stato impossibile vederlo e fortunatamente mi sono accorto che l’abbonamento a Sky serve a qualcosa (almeno qualche volta). Il poco altro, a cui facevo riferimento prima, è una storia scarna e lineare: Jacob si trasferisce dalla California all’Arkansas con la moglie Monica, la figlia Anne e il figlioletto David, cardiopatico.

Li raggiunge la nonna Soon-Ja, che porta con sé i semi della pianta che dà il titolo al film. Prevedibilmente non tutto va per il meglio e questa ineluttabilità del destino, nel bene e nel male con pochissime, impercettibili variazioni sul tema, è l’essenza stessa del film. Perché allora è necessario guardare film come questo? Io credo che “Minari”, pur senza essere un capolavoro, riporti il cinema nell’alveo della narrazione speculativa che è l’essenza stessa del film, almeno nella concezione dei fratelli Lumière (e molto meno in quella di Meliès). Il cinema nasce per farci guardare e farci rispecchiare in ciò che guardiamo. È talmente semplice, che risulta molto difficile spiegarlo.

È un film sul tempo che scorre indifferente alle vicende degli uomini. È un film sulla natura e sul suo inalienabile rapporto con l’uomo. È un film sul lavoro dell’uomo, ma come ha dichiarato lo stesso Chung al New York Times: “non volevo che “Minari” fosse un tipo di film ‘fatto da asiatici per altri asiatici’, perché sentivo che dobbiamo andare oltre anche a questa narrazione”. Da vedere, sempre che ci riusciate…

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Mario Grella

Nato a Novara, vissuto mentalmente a Parigi, continua a credere che la vita reale sia un ottimo surrogato del web.

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Minari

Jacob Yi è un giovane agricoltore sudcoreano trapiantato negli USA e con lui è trapiantato anche il “minari” ovvero una specie di prezzemolo asiatico. Cosa altro racconta il film di Lee Isaac  Chung? Poco altro, ma lo racconta bene; lo racconta come Ken Loach avrebbe raccontato delle asperità della vita di un minatore gallese, senza però fare riferimento alcuno al conflitto sociale, alla lotta di classe che forse per Loach esiste ancora e per Chung non è mai esistita, sostituita dalle vicende ricamate dal destino.

Il film del regista coreano è uscito nelle sale (si fa per dire), il 26 aprile scorso, ma naturalmente è stato impossibile vederlo e fortunatamente mi sono accorto che l’abbonamento a Sky serve a qualcosa (almeno qualche volta). Il poco altro, a cui facevo riferimento prima, è una storia scarna e lineare: Jacob si trasferisce dalla California all’Arkansas con la moglie Monica, la figlia Anne e il figlioletto David, cardiopatico.

Li raggiunge la nonna Soon-Ja, che porta con sé i semi della pianta che dà il titolo al film. Prevedibilmente non tutto va per il meglio e questa ineluttabilità del destino, nel bene e nel male con pochissime, impercettibili variazioni sul tema, è l’essenza stessa del film. Perché allora è necessario guardare film come questo? Io credo che “Minari”, pur senza essere un capolavoro, riporti il cinema nell’alveo della narrazione speculativa che è l’essenza stessa del film, almeno nella concezione dei fratelli Lumière (e molto meno in quella di Meliès). Il cinema nasce per farci guardare e farci rispecchiare in ciò che guardiamo. È talmente semplice, che risulta molto difficile spiegarlo.

È un film sul tempo che scorre indifferente alle vicende degli uomini. È un film sulla natura e sul suo inalienabile rapporto con l’uomo. È un film sul lavoro dell’uomo, ma come ha dichiarato lo stesso Chung al New York Times: “non volevo che “Minari” fosse un tipo di film ‘fatto da asiatici per altri asiatici’, perché sentivo che dobbiamo andare oltre anche a questa narrazione”. Da vedere, sempre che ci riusciate…

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Nato a Novara, vissuto mentalmente a Parigi, continua a credere che la vita reale sia un ottimo surrogato del web.