Trisha Baga: The eye, the eye and the ear

Tutto o quasi, quello che si fa in questi mesi, lo si fa dopo una lunga pausa. E’ stato molto suggestivo vedere e ascoltare le realizzazioni di Trisha Baga “The eye, the eye and the ear” (fino al gennaio 2021), all’Hangar Pirelli Bicocca dopo il lockdown, quasi che questo tempo sospeso, abbia aggiunto un surplus di fascino a creazioni che ne hanno già molto di loro a cominciare da “Orlando” che apre la mostra.

Cos’è Orlando? Si tratta di un testo del naturalista e scienziato William Beebe, “Half Mile Down” del 1934, saggio di oceanografia sulla forma di vita acquatica, dove alla parola “book” (libro), viene sostituita quella di “man” (uomo), mentre “it” (esso) diviene “her” (lei), generando uno scambio di identità tra entità e oggetti viventi che poi è uno dei fili conduttori dell’intera esposizione. Opera di concezione prettamente concettuale che viene riprodotta al contrario, come in uno specchio, al termine del percorso espositivo. Subito dopo l’ingresso nello “shad” dell’Hangar ci imbattiamo in “Hipotethetical Artifacts” (2015-2020), una serie di ceramiche che sembrano provenire da un surreale scavo archeologico e che vedono accostati barboncini fossilizzati da una colata di ceramica multicolore, ad altri oggetti tecnologici, anch’essi in ceramica colorata passati attraverso un flusso temporale indefinito e poi riemersi da esso. Insieme agli oggetti ceramici la mostra presenta cinque installazioni video.

Se le ceramiche neo-archeologiche riproducono oggetti tecnologici della nostra civiltà come fax, macchine fotografiche, microscopi, reperti di una “modernità” invecchiata troppo rapidamente, più complesso è il discorso sui video. Qui l’artista americana diventa parte di un complesso gioco di immagini divenendo essa stessa protagonista di video installazioni dal sapore vagamente pop, attingendo a piene mani, idee ed ispirazione da artiste quali Joan Jonas ed altri video performers.

 

 

Di grande efficacia è, a questo proposito, “Studio Photos” (2012), girato nello studio dell’artista con fasci di luce in movimento che si soffermano, oltre che sul suo cane, anche su oggetti ritenuti significativi sparsi per la stanza; detriti culturali, oggetti che dànno senso al reale o che lo deprivano di esso. Colori lividi ed inserti esterni come l’ombra dello spettatore che va inconsapevolmente a far parte della installazione video. Ma è con “There’s No ‘I’ in Trisha”, primo video realizzato da Trisha Baga, che l’artista sembra varcare nuovi confini e scoprire nuovi territori. Il visitatore è fatto accomodare in un salotto che riprende lo stereotipo della “sitcom” americana.

L’opera analizza il concetto di identità (lo interpreta in più ruoli la stessa Trisha Baga) in una sorta di ode alla cultura popolare. Magnifica la sequenza dove l’artista copre il ruolo di sé stessa in un divertente duetto canoro con il suo doppio (una bambola). Ma la cifra stilistica che contraddistingue la sua raffinata produzione video, risiede certamente nella sua straordinaria capacità di utilizzare, all’interno del prodotto filmico, anche la materia pittorica, la performance e la musica, soprattutto quella pop commerciale, trasformando il tutto in una meditazione, anche dai toni malinconici, su un universo mediatico-visivo che sembra sempre più straniante e straniato.

A proposito di materia pittorica, di incantevole originalità e freschezza sono le “Seed Paintings” del 2017, dipinti minimali di figure umane su legno, realizzate con materiali organici. Le figurine sono tratte da “Virahanka Trail” sempre del 2017, installazione multimediale che riproduceva gruppi di turisti ripresi da una ma china da presa in cammino su dune desertiche; le figure sono affiancate da finestre di dialogo di Photoshop. Una serie di ficcanti suggestioni, analogie e contrapposizioni tra ambiente naturale, mondo della pittura, e nuove realtà digitali. Trisha Baga sembra un artista spaesata in una realtà ormai troppo complessa e multiforme, dove il debito dell’uomo verso il mondo naturale, sembra lontano dall’essere saldato.

Del resto, tornando alle opere “materiche”, come interpretare diversamente “Mollusca & The Pelvic Floor” del 2018? Installazione che ripercorre il percorso evolutivo dei molluschi che gioca sul termine di “mollusca” che è lo pseudonimo con cui l’artista chiama la sua unità domestica di intelligenza artificiale. Una teoria di oggetti che sembrano prendere vita dal “mollusco ancestrale”, all’origine della catena della vita e quindi anche della tecnologia. Artista estremamente raffinata, molto criptica, ma la cui conoscenza riserva sorprese e rivelazioni davvero impensabili.

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Mario Grella

Nato a Novara, vissuto mentalmente a Parigi, continua a credere che la vita reale sia un ottimo surrogato del web.

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Trisha Baga: The eye, the eye and the ear

Tutto o quasi, quello che si fa in questi mesi, lo si fa dopo una lunga pausa. E’ stato molto suggestivo vedere e ascoltare le realizzazioni di Trisha Baga “The eye, the eye and the ear” (fino al gennaio 2021), all’Hangar Pirelli Bicocca dopo il lockdown, quasi che questo tempo sospeso, abbia aggiunto un surplus di fascino a creazioni che ne hanno già molto di loro a cominciare da “Orlando” che apre la mostra. Cos’è Orlando? Si tratta di un testo del naturalista e scienziato William Beebe, “Half Mile Down” del 1934, saggio di oceanografia sulla forma di vita acquatica, dove alla parola “book” (libro), viene sostituita quella di “man” (uomo), mentre “it” (esso) diviene “her” (lei), generando uno scambio di identità tra entità e oggetti viventi che poi è uno dei fili conduttori dell’intera esposizione. Opera di concezione prettamente concettuale che viene riprodotta al contrario, come in uno specchio, al termine del percorso espositivo. Subito dopo l’ingresso nello “shad” dell’Hangar ci imbattiamo in “Hipotethetical Artifacts” (2015-2020), una serie di ceramiche che sembrano provenire da un surreale scavo archeologico e che vedono accostati barboncini fossilizzati da una colata di ceramica multicolore, ad altri oggetti tecnologici, anch’essi in ceramica colorata passati attraverso un flusso temporale indefinito e poi riemersi da esso. Insieme agli oggetti ceramici la mostra presenta cinque installazioni video. Se le ceramiche neo-archeologiche riproducono oggetti tecnologici della nostra civiltà come fax, macchine fotografiche, microscopi, reperti di una “modernità” invecchiata troppo rapidamente, più complesso è il discorso sui video. Qui l’artista americana diventa parte di un complesso gioco di immagini divenendo essa stessa protagonista di video installazioni dal sapore vagamente pop, attingendo a piene mani, idee ed ispirazione da artiste quali Joan Jonas ed altri video performers.     Di grande efficacia è, a questo proposito, “Studio Photos” (2012), girato nello studio dell’artista con fasci di luce in movimento che si soffermano, oltre che sul suo cane, anche su oggetti ritenuti significativi sparsi per la stanza; detriti culturali, oggetti che dànno senso al reale o che lo deprivano di esso. Colori lividi ed inserti esterni come l’ombra dello spettatore che va inconsapevolmente a far parte della installazione video. Ma è con “There’s No ‘I’ in Trisha”, primo video realizzato da Trisha Baga, che l’artista sembra varcare nuovi confini e scoprire nuovi territori. Il visitatore è fatto accomodare in un salotto che riprende lo stereotipo della “sitcom” americana. L’opera analizza il concetto di identità (lo interpreta in più ruoli la stessa Trisha Baga) in una sorta di ode alla cultura popolare. Magnifica la sequenza dove l’artista copre il ruolo di sé stessa in un divertente duetto canoro con il suo doppio (una bambola). Ma la cifra stilistica che contraddistingue la sua raffinata produzione video, risiede certamente nella sua straordinaria capacità di utilizzare, all’interno del prodotto filmico, anche la materia pittorica, la performance e la musica, soprattutto quella pop commerciale, trasformando il tutto in una meditazione, anche dai toni malinconici, su un universo mediatico-visivo che sembra sempre più straniante e straniato. A proposito di materia pittorica, di incantevole originalità e freschezza sono le “Seed Paintings” del 2017, dipinti minimali di figure umane su legno, realizzate con materiali organici. Le figurine sono tratte da “Virahanka Trail” sempre del 2017, installazione multimediale che riproduceva gruppi di turisti ripresi da una ma china da presa in cammino su dune desertiche; le figure sono affiancate da finestre di dialogo di Photoshop. Una serie di ficcanti suggestioni, analogie e contrapposizioni tra ambiente naturale, mondo della pittura, e nuove realtà digitali. Trisha Baga sembra un artista spaesata in una realtà ormai troppo complessa e multiforme, dove il debito dell’uomo verso il mondo naturale, sembra lontano dall’essere saldato. Del resto, tornando alle opere “materiche”, come interpretare diversamente “Mollusca & The Pelvic Floor” del 2018? Installazione che ripercorre il percorso evolutivo dei molluschi che gioca sul termine di “mollusca” che è lo pseudonimo con cui l’artista chiama la sua unità domestica di intelligenza artificiale. Una teoria di oggetti che sembrano prendere vita dal “mollusco ancestrale”, all’origine della catena della vita e quindi anche della tecnologia. Artista estremamente raffinata, molto criptica, ma la cui conoscenza riserva sorprese e rivelazioni davvero impensabili.

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Mario Grella

Nato a Novara, vissuto mentalmente a Parigi, continua a credere che la vita reale sia un ottimo surrogato del web.