Finalmente mi sento la coscienza a posto. Erano circa cinquant’anni che non mi sentivo a posto con la mia coscienza. Adesso mi sento bene. Tutto è cominciato una cinquantina di anni fa, appunto, ma forse anche di più, e a farmi sentire fuori posto con la coscienza era stata la mia famiglia, in particolare mio nonno Giovanni, mia mamma Angelica (sua figlia) e mio papà Renato.

Quando all’età di dieci anni sedevo a tavola (vivevamo coi miei nonni), e capitava che non mi piacesse una pietanza (che allora si chiamava “roba da mangiare” e capitava raramente), oppure che avessi poco appetito (che allora si chiamava “fame” e capitava anche questo raramente), mio nonno mi guardava con il massimo del disprezzo e si rivolgeva a me dicendomi: “…Un po’ ‘d guèra…”.

Per i non avvezzi all’idioma vernacolare novarese, “un po’ ‘d guèra” era l’estrema contrazione di una espressione che, tradotta in lingua italiana e attribuendo ad essa un significato semanticamente compiuto, significava: “Sarebbe opportuno che tu avessi vissuto gli stenti che ho vissuto io in tempo di guerra, in modo da poter apprezzare questo cibo.” Insomma era un modo per sanzionare moralmente la mia spocchia per quel cibo.

Mio nonno Giovanni era un “ragazzo del 99” e quindi aveva vissuto la Grande Guerra in prima persona, al fronte. Era più che comprensibile che non potesse tollerare i capricci di un bambino riguardo al cibo. Passarono gli anni e quando tornavo a casa dal liceo, qualche volta non mi andava di mangiare. Il nonno non c’era più, ma c’era la mamma Angelica che mi guardava con disprezzo e mi diceva: “…Un po’ d’guèra”. Lei era nata nel 1935 e da bambina aveva vissuto la Seconda Guerra mondiale con tutti gli stenti che quella guerra portò con sé: mercato nero, razionamenti, carte del pane.

Poi interveniva mio padre che, essendo nato nel 1929, aveva vissuto quel periodo al suo paese nel Sud, vicino a Cassino, cuore della Linea Gotica e rammentava alla mamma che a Novara non avevano visto niente in quanto a sofferenze e stenti, rispetto a Cassino. Mi guardava anche lui con disprezzo e mi diceva: “…Nu poco ‘e uerra…”. È inutile che vi dica che in dialetto campano, l’espressione significa più o meno la stessa cosa.

Insomma io avrei dovuto conoscere gli stenti o comunque i disagi di una guerra per apprezzare tutto ciò che avevo. Fortunatamente non sto patendo la fame, ma qualche disagio lo sto vivendo, però non mi sento più la coscienza fuori posto. Finalmente nonno Giovanni, mamma Angelica e papà Renato, sarebbero fieri di me. Non vedo l’ora , come tutti noi, che passi tutto ciò che di orribile stiamo vivendo. Ma vi prometto che il giorno che vedrò un bambino che frigna davanti a un gelato non di suo gusto, oppure che protesta perché la mamma non lo lascia uscire a giocare, non aprirò bocca…

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Mario Grella

Nato a Novara, vissuto mentalmente a Parigi, continua a credere che la vita reale sia un ottimo surrogato del web.

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Un po’ di guerra

Finalmente mi sento la coscienza a posto. Erano circa cinquant’anni che non mi sentivo a posto con la mia coscienza. Adesso mi sento bene. Tutto è cominciato una cinquantina di anni fa, appunto, ma forse anche di più, e a farmi sentire fuori posto con la coscienza era stata la mia famiglia, in particolare mio nonno Giovanni, mia mamma Angelica (sua figlia) e mio papà Renato. Quando all’età di dieci anni sedevo a tavola (vivevamo coi miei nonni), e capitava che non mi piacesse una pietanza (che allora si chiamava “roba da mangiare” e capitava raramente), oppure che avessi poco appetito (che allora si chiamava “fame” e capitava anche questo raramente), mio nonno mi guardava con il massimo del disprezzo e si rivolgeva a me dicendomi: “...Un po’ ‘d guèra...”. Per i non avvezzi all’idioma vernacolare novarese, “un po’ ‘d guèra” era l’estrema contrazione di una espressione che, tradotta in lingua italiana e attribuendo ad essa un significato semanticamente compiuto, significava: “Sarebbe opportuno che tu avessi vissuto gli stenti che ho vissuto io in tempo di guerra, in modo da poter apprezzare questo cibo.” Insomma era un modo per sanzionare moralmente la mia spocchia per quel cibo. Mio nonno Giovanni era un “ragazzo del 99” e quindi aveva vissuto la Grande Guerra in prima persona, al fronte. Era più che comprensibile che non potesse tollerare i capricci di un bambino riguardo al cibo. Passarono gli anni e quando tornavo a casa dal liceo, qualche volta non mi andava di mangiare. Il nonno non c’era più, ma c’era la mamma Angelica che mi guardava con disprezzo e mi diceva: “...Un po’ d’guèra”. Lei era nata nel 1935 e da bambina aveva vissuto la Seconda Guerra mondiale con tutti gli stenti che quella guerra portò con sé: mercato nero, razionamenti, carte del pane. Poi interveniva mio padre che, essendo nato nel 1929, aveva vissuto quel periodo al suo paese nel Sud, vicino a Cassino, cuore della Linea Gotica e rammentava alla mamma che a Novara non avevano visto niente in quanto a sofferenze e stenti, rispetto a Cassino. Mi guardava anche lui con disprezzo e mi diceva: “...Nu poco ‘e uerra...”. È inutile che vi dica che in dialetto campano, l’espressione significa più o meno la stessa cosa. Insomma io avrei dovuto conoscere gli stenti o comunque i disagi di una guerra per apprezzare tutto ciò che avevo. Fortunatamente non sto patendo la fame, ma qualche disagio lo sto vivendo, però non mi sento più la coscienza fuori posto. Finalmente nonno Giovanni, mamma Angelica e papà Renato, sarebbero fieri di me. Non vedo l’ora , come tutti noi, che passi tutto ciò che di orribile stiamo vivendo. Ma vi prometto che il giorno che vedrò un bambino che frigna davanti a un gelato non di suo gusto, oppure che protesta perché la mamma non lo lascia uscire a giocare, non aprirò bocca...

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Nato a Novara, vissuto mentalmente a Parigi, continua a credere che la vita reale sia un ottimo surrogato del web.