Se nell’inverno 1943-’44, ben prima della cosiddetta “svolta di Salerno”, i ricostituiti partiti politici antifascisti cominciarono a chiedersi su quale futuro avrebbe potuto avere ancora la monarchia in Italia, erano comunque decisamente lontani da immagine che tipo di repubblica sarebbe stata nei loro desideri. Una schiarita arrivò nella primavera del 1946, con il decreto che, se da un lato giunse a sottrarre alla da tempo annunciata Assemblea costituente il compito della scelta sulla forma istituzionale dello Stato per affidarla direttamente al popolo attraverso un referendum, dall’altro venne stabilito che, in caso di affermazione repubblicana all’ormai quasi imminente consultazione, sarebbe toccato alla stessa Costituente eleggere il capo provvisorio dello Stato. Si stava già profilando, insomma, una vaga idea – poi tradotta nella carta costituzionale – che se alla repubblica si fosse arrivati, non sarebbe comunque stata presidenziale, ma avrebbe avuto nel Parlamento la sua centralità, con un presidente nelle vesti di garante. L’idea di un capo dello Stato come “uomo forte” incuteva non poche preoccupazioni, non solo alla luce di quanto accaduto nel ventennio precedente… In ogni caso la Costituente il 28 giugno 1946, tre giorni dopo la sua prima storica seduta d’insediamento, elesse Enrico De Nicola come capo provvisorio, che entrò in carica il 1° luglio per poi assumere titolo e funzioni di primo presidente della Repubblica con l’entrata in vigore della Costituzione, il 1° gennaio 1948.
Ma come si arrivò al nome di De Nicola? La sua fu una candidatura, al di là dei meriti e dei riconoscimenti in ambito giuridico, fu il frutto della prima mediazione nella storia politica repubblicana. La prima di tante destinate a susseguirsi. I tre partiti politici (Democrazia cristiana, Partito comunista e Partito socialista) che da soli avevano ottenuto il 75% dei voti il 2 giugno avevano convenuto che il primo presidente, oltre ad essere una figura autorevole e capace di riscuotere il maggior consenso possibile, dovesse essere un meridionale e, soprattutto, un esponente che aveva simpatizzato per la monarchia. Motivi presto spiegati: da un lato si voleva rendere meno traumatico possibile il trapasso istituzionale di fronte a un’opinione pubblica che, risultati alla mano, aveva per il 46% votato in favore dell’appena esiliato Umberto II, dall’altro l’obiettivo era quello di bilanciare la fote presenza di leader politici settentrionali (il trentino Alcide De Gasperi, il piemontese, anche se nato a Genova, Palmiro Togliatti, il romagnolo Pietro Nenni) con un uomo del Sud.
Enrico De Nicola non fu comunque la prima scelta. Già in quell’estate del ’46 si intravidero i pregi e i difetti del futuro sistema politico italiano in occasioni come quella delle elezioni presidenziali, dove veti incrociati e litigiosità all’interno degli stessi partiti finiranno per avere la meglio e, quasi come in un conclave, chi vi entrava come papa ne sarebbe uscito cardinale. Così, alle candidatura iniziali di Vittorio Emanuele Orlando (il “presidente della Vittoria” nel 1918, avanzata dalla Dc e dalle destre) e di Benedetto Croce (proposto da sinistre e laici), fin+ per spuntarla l’inizialmente tentennante Enrico De Nicola, eletto con 396 voti su 501. Sufficiente per superare il quorum dei tre quinti dell’assemblea previsto in quel momento.