Marta, Luigi, Paolo Gino, Giancarlo per due giorni. Sono loro i primi volontari della Corce rossa Galliate che hanno risposto presente all’appello lanciato dagli amici della Lombardia. Sei giorni a Bresso, a Bergamo, dove il Coronavirus si è abbattuto in modo più crudele. «Sono stati giorni intensi, formativi, dolorosi. Ho avuto paura, ma è stata proprioquella paura, quell’ansia che provavo a darmi la forza e il coraggio di andare avanti. Le emozioni provate sono indescrivibili, sono troppe e molto forti. Ci sono momenti in cui provi emozioni positive, di felicità altre invece molto negative, di tristezza e impotenza» dice Marta Pizzimenti.
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«Momento più difficile? Sono stati tanticon peso diverso. Oltre che alla situazione in cui mi trovavo, i momenti difficili per me sono stati quelli in cui cercavo di incoraggiare pazienti e parenti, quindi la parte psicologica ed emotiva della missione. C’erano pazienti che mi guardavano chiedendo aiuto, chiedendomi di non lasciarli mai da soli, altri che mi prendevano la mano e non volevano più lasciarmela. Poi c’era chi aveva un volto pieno di paura, ma rassegnato quasi da voler lasciarsi andare senza combattere. Ma non solo loro avevano paura, c’erano anche i parenti che, conoscendo la situazione e avendo magari subito già un altro lutto da pochi giorni, – racconta la volontaria – mi chiedevano consigli, aiuti che purtroppo non potevo dare. In qualsiasi situazione cercavo di dare coraggio, di incitare e non mollare, che una volta guariti avrebbero rivisto la loro famiglia. E lo stesso facevo con la famiglia che in lacrime salutava il proprio caro mentre lo mettevamo sull’ambulanza per portarlo in un ospedale, dove purtroppo molti a causa dell’età, della debolezza o patologie che già avevano sapevano che una volta sorpassata quella porta non sarebbero più usciti. In tutto questo ci sono stati momenti “belli”, quelli che ti hanno dato la forza: era quel semplice “grazie per quello che fate” da parte delle famiglie, quell’emozione che provavano le persone quando dicevo che eravamo del Piemonte e che eravamo giunti lì per aiutare. E ancora di più la solidarietà, l’unione che c’era tra noi soccorritori delle diverse associazioni, ma anche tra noi soccorritori e medici e infermieri che nonostante il loro duro lavoro ci ringraziavano. La grande famiglia che si è creata, che ci permetteva di andare avanti».
Esperienza intensa anche per Luigi Manca, «esperienza che evidenzia chi è davvero coraggioso da chi lo rivela solo a parole. Il momento più difficile? Quando le chiamate di soccorso sono così tante che pensi che il tuo sforzo e quello di tutti gli altri non possa bastare, oltre a quando gli ospedali erano talmente saturi di malati che per attimi non sapevi dove portare i nuovi malati, attimi tremendi. Come volontario il momento che dava più forza era quando consegnavi il paziente nelle mani dei medici e infermieri che con le loro cure e parole facevano capire che il paziente poteva essere in salvo e quindi eri pronto a salire nuovamente in ambulanza per il prossimo intervento».
Paolo Gino Filippi definisce i sei giorni «difficoltosi, per la territorialità, pericolosi per il momento, ma anche entusiasmante, perché si era a contatto con altre realtà e questo ha fatto sì che non vivessi momenti particolarmente difficili, la paura? C’è stata, ma ti dà forza e coraggio».
Giancarlo Zanaria infine ha vissuto due giorni nella zona di Bergamo, ma non per questo le emozioni sono state meno intense. «Esperienza dolorosa, entravi in casa di persone spaventate e sofferenti; ho provato impotenzaper avere a che fare con persone che fin dall’inizio sai di non poter aiutare tranne che trasportarle in ospedale. E anche dolorosa, nell’incrociare lo sguardo dei familiari anche loro spaventati perché se si ricoveravano i loro cari sapevano di rischiare di non riuscire a rivederli». Paura, forza coraggio? «Non ho avuto il tempo per ragionare su ciò che provavo, c’era da correre». Giancarlo ha un momento che ricorda molto bene, difficile: «Quando abbiamo trasportato un signore di 55 anni Covid-19 “sospetto” che il giorno prima aveva perso il padre proprio per il virus: tutta la famiglia era terrorizzata nel doverlo “abbandonare” in un ospedale. Ciò che mi ha dato forza è stata la solidarietà, la collaborazione, la disponibilità, la gentilezza di tutti coloro che abbiamo incontrato, volontari, medici, infermieri, familiari e pazienti stessi e, i tantissimi grazie anche da parte degli stessi volontari di Bergamo».
E’ unanime il loro pensiero alla domanda: perché è importante restare a casa? «Per fermare questa dolorosa pandemia.Per evitare di portare il virus a casa e trasmetterlo ai propri cari i quali potrebbero farcela oppure no visto le notevoli complicanze e morti. O in caso contrario uscire e trasmetterlo ad altre persone. E soprattutto per evitare di prenderlo, perché oltre a essere doloroso si rischia di non poter essere curati a causa di un sovraffollamento degli ospedali»dice Marta. «Non è importante stare a casa, è indispensabile, – aggiunge Luigi – è l’unica medicina. La scienza e la medicina dicono che una persona può infettarne altre 18, quindi ti puoi rendere conto di che micidiale moltiplicatore di contagio puoi essere. Quindi se veramente vuoi bene ai tuo cari e alle persone devi stare a casa». E Giancarlo chiude: «Perché a casa? Per vincere!».