Arrivederci, Joan, arrivederci

Domenica 28 luglio, al Teatro Real di Madrid, per l’ultima volta nella sua lunghissima e intensa carriera Joan Baez ha appoggiato la chitarra sull’asta di sostegno e voltato le spalle al pubblico per allontanarsi dal palco.

Il Fare Thee Well Tour, annunciato come ultimo tour fin dal titolo, era partito il 2 marzo 2018 da Stoccolma – transitando in Italia a Verona, Roma, Udine e Pollenzo nei primi giorni di agosto – e avrebbe dovuto concludersi il 1 marzo del 2019 al Palladium di Londra. Ma già nel luglio del 2018 era stato annunciato un nuovo leg americano con diciassette date tra aprile e maggio 2019, cui, successivamente, si era aggiunto un altro leg europeo di quindici date dal 3 al 28 luglio, per far fronte alle richieste che continuavano a pervenire al management della cantante.

 

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Fin da subito, infatti, il tour si è trasformato in un lungo tributo di affetto e gratitudine per una delle figure più rappresentative della cultura progressista degli ultimi sessant’anni, fin dagli esordi nelle coffee house sorte alla fine degli anni cinquanta intorno al Club 47 di Cambridge, MA – la cittadina nei pressi di Boston dove sorgono l’Università di Harvard, il Massachussets Institute of Tecnology e la Graduate School of Arts and Sciences – e dalla successiva consacrazione al Festival di Newport del 1959.

In questo anno e mezzo di concerti, infatti, al pubblico che ha continuato ad accompagnarla negli anni al succedersi delle generazioni, si sono uniti via via molti tra coloro che avevano partecipato alla stagione dei movimenti degli anni sessanta e settanta, qualcuno con i vecchi vinili da far autografare, qualcuno che con il passare del tempo aveva financo smesso di ascoltare musica, e forse anche di continuare a impegnarsi nello spazio pubblico, richiamati dall’affetto per un’artista che attraverso le sue canzoni è riuscita più di chiunque altro a dare forma e, nel medesimo tempo, nutrire le emozioni e i sentimenti di tutti coloro che non si sono mai rassegnati all’ineluttabilità di un mondo governato dalla violenza e dalla discriminazione, continuando tenacemente a battersi per mantenere aperte e accoglienti le nostre società.

Certo, allo slancio e all’energia degli anni in cui tutto sembrava possibile era subentrata la consapevolezza dell’impossibilità di forzare il tempo storico, eco della quale si sente risuonare in queste poche parole che la cantante newyorkese ha rivolto al pubblico di uno dei concerti parigini del giugno dello scorso anno dopo aver cantato Here’s to You: «Il cambiamento stabile si costruisce a piccoli passi. Se proprio non è più ammessa nessuna speranza, ognuno di noi deve almeno continuare a coltivare la compassione e la decenza».

Dalle prime ballate riprese dalla tradizione popolare, ai versi fiammeggianti e traboccanti di significati di Bob Dylan, così intensamente aderenti ai rivolgimenti del nostro tempo, dalle canzoni della nuova scena musicale degli anni sessanta e settanta, a quelle della rinnovata coscienza civile degli anni ottanta, fino ad arrivare agli autori della leva degli anni duemila sono emerse nel tempo un pugno di canzoni intorno alle quali Joan Baez ha saputo costruire – soprattutto attraverso i concerti dal vivo e la sua instancabile partecipazione a manifestazioni e iniziative per la difesa e la promozione dei diritti civili, più che con i dischi – uno spazio simbolico nel quale si è progressivamente riconosciuta una comunità, tenuta insieme dalla condivisione di ideali e speranze, coltivati attraverso forme di attività nella società molto differenti tra loro, più che da precisi progetti politici.

Proprio captando questa atmosfera, Joan Baez aveva deciso nel secondo leg del tour di sostituire The Boxer, che chiudeva i concerti del primo leg, con Dink’s Song, una canzone della tradizione afro-americana raccolta da John Lomax nel 1908, nota anche come Fare The Well, lo stesso titolo scelto per il tour. La canzone di Paul Simon, infatti, si chiude con i versi «”I’m leaving, I’m leaving”/but the fighter still remains», cioè, me ne sto andando, me ne sto andando, ma il combattente continua a rimanere, una promessa di non scomparire del tutto, e, quindi, anche una forma di saluto, ma soprattutto un’affermazione della propria integrità. Invece, il verso che chiude tutte le strofe di Dink’s Song con la funzione di ritornello – «Fare thee well, my honey/Fare thee well» – è diventato sera dopo sera un commosso saluto rivolto a tutti coloro che, magari anche solo per un breve tratto, hanno condiviso il suo lungo cammino di musica e impegno politico e sociale fusi senza soluzione di continuità, sovrapponendosi fino a cancellarlo al significato che gli è proprio all’interno della canzone. Tanto da diventare «Arrivederci, amici/arrivederci» a Collegno, unica data italiana del secondo leg il 19 luglio, o «Adiós, mios amigos/adiós» nell’ultimo concerto madrileno. Saluto che Joan Baez ha voluto che riecheggiasse per l’ultima volta in Europa.

Intervistata da Andy Green di “Rolling Stone”, alla domanda sul perché non avesse pensato di chiudere il tour a Port Chester, una cittadina situata a una cinquantina di chilometri da New York, dove ha chiuso il leg americano il 5 maggio, o di aggiungere una data conclusiva a Boston, Joan Baez ha risposto: «L’Europa mi ha sempre seguita, anche quando negli Stati Uniti non mi sostenevano più […] Amo l’Europa e il suo pubblico. Sarà un bel modo di chiudere*». In tempi che a volte paiono così desolati, un riconoscimento non da poco. Forse non tutto è perduto.

 

* Andy Greene, Joan Baez Reflects on the End of Her Farewell Tour and What’s Next, in “Rolling Stone”, 30 aprile 2019. Anche prima dell’aggiunta delle nuove date, come abbiamo visto, la chiusura del tour era stata stabilita in Europa.

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Giovanni A. Cerutti

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Arrivederci, Joan, arrivederci

Domenica 28 luglio, al Teatro Real di Madrid, per l’ultima volta nella sua lunghissima e intensa carriera Joan Baez ha appoggiato la chitarra sull’asta di sostegno e voltato le spalle al pubblico per allontanarsi dal palco.

Il Fare Thee Well Tour, annunciato come ultimo tour fin dal titolo, era partito il 2 marzo 2018 da Stoccolma – transitando in Italia a Verona, Roma, Udine e Pollenzo nei primi giorni di agosto – e avrebbe dovuto concludersi il 1 marzo del 2019 al Palladium di Londra. Ma già nel luglio del 2018 era stato annunciato un nuovo leg americano con diciassette date tra aprile e maggio 2019, cui, successivamente, si era aggiunto un altro leg europeo di quindici date dal 3 al 28 luglio, per far fronte alle richieste che continuavano a pervenire al management della cantante.

 

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Fin da subito, infatti, il tour si è trasformato in un lungo tributo di affetto e gratitudine per una delle figure più rappresentative della cultura progressista degli ultimi sessant’anni, fin dagli esordi nelle coffee house sorte alla fine degli anni cinquanta intorno al Club 47 di Cambridge, MA – la cittadina nei pressi di Boston dove sorgono l’Università di Harvard, il Massachussets Institute of Tecnology e la Graduate School of Arts and Sciences – e dalla successiva consacrazione al Festival di Newport del 1959.

In questo anno e mezzo di concerti, infatti, al pubblico che ha continuato ad accompagnarla negli anni al succedersi delle generazioni, si sono uniti via via molti tra coloro che avevano partecipato alla stagione dei movimenti degli anni sessanta e settanta, qualcuno con i vecchi vinili da far autografare, qualcuno che con il passare del tempo aveva financo smesso di ascoltare musica, e forse anche di continuare a impegnarsi nello spazio pubblico, richiamati dall’affetto per un’artista che attraverso le sue canzoni è riuscita più di chiunque altro a dare forma e, nel medesimo tempo, nutrire le emozioni e i sentimenti di tutti coloro che non si sono mai rassegnati all’ineluttabilità di un mondo governato dalla violenza e dalla discriminazione, continuando tenacemente a battersi per mantenere aperte e accoglienti le nostre società.

Certo, allo slancio e all’energia degli anni in cui tutto sembrava possibile era subentrata la consapevolezza dell’impossibilità di forzare il tempo storico, eco della quale si sente risuonare in queste poche parole che la cantante newyorkese ha rivolto al pubblico di uno dei concerti parigini del giugno dello scorso anno dopo aver cantato Here’s to You: «Il cambiamento stabile si costruisce a piccoli passi. Se proprio non è più ammessa nessuna speranza, ognuno di noi deve almeno continuare a coltivare la compassione e la decenza».

Dalle prime ballate riprese dalla tradizione popolare, ai versi fiammeggianti e traboccanti di significati di Bob Dylan, così intensamente aderenti ai rivolgimenti del nostro tempo, dalle canzoni della nuova scena musicale degli anni sessanta e settanta, a quelle della rinnovata coscienza civile degli anni ottanta, fino ad arrivare agli autori della leva degli anni duemila sono emerse nel tempo un pugno di canzoni intorno alle quali Joan Baez ha saputo costruire – soprattutto attraverso i concerti dal vivo e la sua instancabile partecipazione a manifestazioni e iniziative per la difesa e la promozione dei diritti civili, più che con i dischi – uno spazio simbolico nel quale si è progressivamente riconosciuta una comunità, tenuta insieme dalla condivisione di ideali e speranze, coltivati attraverso forme di attività nella società molto differenti tra loro, più che da precisi progetti politici.

Proprio captando questa atmosfera, Joan Baez aveva deciso nel secondo leg del tour di sostituire The Boxer, che chiudeva i concerti del primo leg, con Dink’s Song, una canzone della tradizione afro-americana raccolta da John Lomax nel 1908, nota anche come Fare The Well, lo stesso titolo scelto per il tour. La canzone di Paul Simon, infatti, si chiude con i versi «”I’m leaving, I’m leaving”/but the fighter still remains», cioè, me ne sto andando, me ne sto andando, ma il combattente continua a rimanere, una promessa di non scomparire del tutto, e, quindi, anche una forma di saluto, ma soprattutto un’affermazione della propria integrità. Invece, il verso che chiude tutte le strofe di Dink’s Song con la funzione di ritornello – «Fare thee well, my honey/Fare thee well» – è diventato sera dopo sera un commosso saluto rivolto a tutti coloro che, magari anche solo per un breve tratto, hanno condiviso il suo lungo cammino di musica e impegno politico e sociale fusi senza soluzione di continuità, sovrapponendosi fino a cancellarlo al significato che gli è proprio all’interno della canzone. Tanto da diventare «Arrivederci, amici/arrivederci» a Collegno, unica data italiana del secondo leg il 19 luglio, o «Adiós, mios amigos/adiós» nell’ultimo concerto madrileno. Saluto che Joan Baez ha voluto che riecheggiasse per l’ultima volta in Europa.

Intervistata da Andy Green di “Rolling Stone”, alla domanda sul perché non avesse pensato di chiudere il tour a Port Chester, una cittadina situata a una cinquantina di chilometri da New York, dove ha chiuso il leg americano il 5 maggio, o di aggiungere una data conclusiva a Boston, Joan Baez ha risposto: «L’Europa mi ha sempre seguita, anche quando negli Stati Uniti non mi sostenevano più […] Amo l’Europa e il suo pubblico. Sarà un bel modo di chiudere*». In tempi che a volte paiono così desolati, un riconoscimento non da poco. Forse non tutto è perduto.

 

* Andy Greene, Joan Baez Reflects on the End of Her Farewell Tour and What’s Next, in “Rolling Stone”, 30 aprile 2019. Anche prima dell’aggiunta delle nuove date, come abbiamo visto, la chiusura del tour era stata stabilita in Europa.

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