L’arresto della giornalista italiana Cecilia Sala, avvenuto dieci giorni fa a Teheran, e la conseguente reclusione nella prigione di Evin – detta l’università perchè è dove sono detenuti intellettuali, scrittori, studenti, tutti oppositori che appartengono alla società civile – ha riacceso i fari sulla vicenda di Ahmad Dajali, il ricercatore iraniano del Crimedim, il Dipartimento di Medicina dei disastri dell’Università del Piemonte Orientale, richiuso nello stesso carcere dal 2016.
Di lui non si hanno più notizie. L’ultima volta se ne era parlato a giugno quando, secondo quando riportato da Amnesty International, Djalali era stato escluso dallo scambio di detenuti tra Svezia e Iran: a Teheran era tornato Hamid Nouri, condannato all’ergastolo per il ruolo avuto nel massacro delle carceri iraniane del 1988; in cambio, erano rientrati in Svezia il funzionario dell’Unione europea Johan Floderus e Saeed Azizi.
Numerose sono state manifestazioni organizzate non solo a Novara per chiedere la sua liberazione, ma finora nulla è servito.
Djalali è stato condannato a morte nell’ottobre 2017 per il reato di “corruzione sulla terra”, al termine di un processo arbitrario e illegittimo celebrato dalla sezione 15 del Tribunale rivoluzionario di Teheran.