Leri Cavour, tra i “fantasmi” del passato e l’incuria del presente

Leri Cavour, dove la storia e il tempo si sono fermati e sono stati sopraffatti dall’incuria e dall’indifferenza. A Leri, frazione di Trino, non si arriva “per caso”: bisogna cercarlo questo borgo, un tempo importante tenuta agricola di proprietà della famiglia Benso, oggi avvolto da un silenzio spettrale dove gli edifici, dalla villa padronale, luogo di ritiro del conte Camillo, alle stalle, dalla scuola alle abitazioni di chi qui ci lavorava, testimoniano la vita che si svolgeva almeno fino agli anni Sessanta. Percorrendo la strada delle Grange, che collega Vercelli a Crescentino, una provinciale che corre diritta tra le risaie che si estendono a perdita d’occhio, dirimpetto ad una casa cantoniera (anch’essa abbandonata), c’è una stradina che si inoltra tra i campi. Sullo sfondo appare il borgo e già in lontananza si intravede sulla sinistra la chiesa, con il campanile che svetta sulla vegetazione, sulla destra la villa padronale

Alle spalle, quasi in linea retta, in lontananza si scorge un altro dei tanti luoghi carichi di storia e di mistero del vercellese, il “Principato di Lucedio” con l’Abbazia di Santa Maria.

Si segue la stradina e si arriva in uno slargo, davanti ad una casa colonica, forse un tempo abitazione di fittavoli e braccianti, che presenta, sul davanti ancora una parvenza di aiuola, ormai nascosta dall’erba che ha preso il sopravvento.

Parcheggiata l’auto ci si inoltra costeggiando sulla destra il lungo caseggiato per raggiungere la villa. E se l’abbandono era già palpabile – persiane aperte, vetri rotti e alcune aperture al piano terra murate nel vano tentativo di impedire l’accesso ai locali – quel che si presenta agli occhi, al cospetto della villa, lascia senza parole.

All’interno della villa anni di saccheggi hanno lasciato il segno. Certo è difficile oggi pensare che in quelle stanze, dai soffitti affrescati (fortunatamente, a parte i danni del tempo, sono ancora ben visibili) il conte Camillo meditasse e studiasse, lasciando vagare lo sguardo sull’immensa distesa delle risaie. Sul lato interno, di fronte alla villa un ampio cortile, chiuso su tre lati da caseggiati che un tempo avevano ospitato le famiglie che lavoravano nella tenuta, e in mezzo un pozzo (quel che emerge dall’erba è solo la cupola)

Tutto intorno, disposti su tre lati, le stalle. E le costruzioni che un tempo, neppure tanto lontano, brulicavano di famiglie. Il borgo si snoda poi anche lungo la strada principale dove si affacciano altri edifici.

Quindi, sul lato opposto, di poco rientrata rispetto alla “strada principale” che attraversa il borgo, la chiesa della Natività di Maria Santissima, edificata nei primi anni del 1700 da Francesco Gallo, ormai abbandonata da anni.

E, poco distante, la scuola presumibilmente utilizzata dagli ultimi residenti fino agli anni Sessanta, come dimostra una lapide apposta nella ricorrenza del centenario dell’Unità d’Italia.

Un borgo dimenticato la cui storia, come testimonia, a parte le innumerevoli pubblicazioni, anche un cartello, crollato anch’esso, posto di fronte all’ingresso della chiesa, si perde nella notte dei tempi.

Due anni fa, quando per la prima volta, ero “capitata” a Leri Cavour in un assolato pomeriggio di una domenica d’estate, l’abbandono, degrado, l’incuria mi avevano quasi tolto il fiato e la parola. Nulla, purtroppo, in confronto a quanto ho trovato, e provato, solo una settimana fa. Quella domenica, mentre cercavo un po’ d’ombra seduta sul parapetto di un piccolo canale che scorre a lato della strada di fronte alla chiesa, era arrivata un’auto; ne era sceso un uomo, non più giovane, con un cane che si era tuffato, alla ricerca di un po’ di refrigerio nelle acque. Non voleva uscirne e così ci siamo offerti di dargli una mano per recuperare il reticente fuggiasco. Poche parole, poi il suo sguardo velato dalla malinconia che vagava tra la chiesa, la scuola e le case, mi avevano indotto a fargli qualche domanda. “Io sono nato qui e in questa chiesa mi sono sposato. Il mio è stato l’ultimo matrimonio celebrato a Leri. Poi la chiesa è stata chiusa. Qui, una volta c’era tanta gente”. Se, lasciando Leri, per un attimo chiudi gli occhi e lasci correre la fantasia, ti sembra di sentire ancora il vociare della gente, il “rumore” del lavoro nei campi e quello della ruota del mulino che macina la “fatica” dei giorni e dei contadini; e, forse, nelle calde sere d’estate, alzarsi qualche canto sulle note malinconiche di una fisarmonica. Ma gli occhi poi li riapri, e c’è solo il silenzio “guardato a vista” dalle torri della centrale di Trino Vercellese.

 

 

Condividi:

Facebook
WhatsApp
Telegram
Email
Twitter

© 2024 La Voce di Novara - Riproduzione Riservata
Iscrizione al registro della stampa presso il Tribunale di Novara

Picture of Redazione

Redazione

Condividi l'articolo

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

SEGUICI SUI SOCIAL

Sezioni

Leri Cavour, tra i “fantasmi” del passato e l’incuria del presente

Leri Cavour, dove la storia e il tempo si sono fermati e sono stati sopraffatti dall’incuria e dall’indifferenza. A Leri, frazione di Trino, non si arriva “per caso”: bisogna cercarlo questo borgo, un tempo importante tenuta agricola di proprietà della famiglia Benso, oggi avvolto da un silenzio spettrale dove gli edifici, dalla villa padronale, luogo di ritiro del conte Camillo, alle stalle, dalla scuola alle abitazioni di chi qui ci lavorava, testimoniano la vita che si svolgeva almeno fino agli anni Sessanta. Percorrendo la strada delle Grange, che collega Vercelli a Crescentino, una provinciale che corre diritta tra le risaie che si estendono a perdita d’occhio, dirimpetto ad una casa cantoniera (anch’essa abbandonata), c’è una stradina che si inoltra tra i campi. Sullo sfondo appare il borgo e già in lontananza si intravede sulla sinistra la chiesa, con il campanile che svetta sulla vegetazione, sulla destra la villa padronale

Alle spalle, quasi in linea retta, in lontananza si scorge un altro dei tanti luoghi carichi di storia e di mistero del vercellese, il “Principato di Lucedio” con l’Abbazia di Santa Maria.

Si segue la stradina e si arriva in uno slargo, davanti ad una casa colonica, forse un tempo abitazione di fittavoli e braccianti, che presenta, sul davanti ancora una parvenza di aiuola, ormai nascosta dall’erba che ha preso il sopravvento.

Parcheggiata l’auto ci si inoltra costeggiando sulla destra il lungo caseggiato per raggiungere la villa. E se l’abbandono era già palpabile – persiane aperte, vetri rotti e alcune aperture al piano terra murate nel vano tentativo di impedire l’accesso ai locali – quel che si presenta agli occhi, al cospetto della villa, lascia senza parole.

All’interno della villa anni di saccheggi hanno lasciato il segno. Certo è difficile oggi pensare che in quelle stanze, dai soffitti affrescati (fortunatamente, a parte i danni del tempo, sono ancora ben visibili) il conte Camillo meditasse e studiasse, lasciando vagare lo sguardo sull’immensa distesa delle risaie. Sul lato interno, di fronte alla villa un ampio cortile, chiuso su tre lati da caseggiati che un tempo avevano ospitato le famiglie che lavoravano nella tenuta, e in mezzo un pozzo (quel che emerge dall’erba è solo la cupola)

Tutto intorno, disposti su tre lati, le stalle. E le costruzioni che un tempo, neppure tanto lontano, brulicavano di famiglie. Il borgo si snoda poi anche lungo la strada principale dove si affacciano altri edifici.

Quindi, sul lato opposto, di poco rientrata rispetto alla “strada principale” che attraversa il borgo, la chiesa della Natività di Maria Santissima, edificata nei primi anni del 1700 da Francesco Gallo, ormai abbandonata da anni.

E, poco distante, la scuola presumibilmente utilizzata dagli ultimi residenti fino agli anni Sessanta, come dimostra una lapide apposta nella ricorrenza del centenario dell’Unità d’Italia.

Un borgo dimenticato la cui storia, come testimonia, a parte le innumerevoli pubblicazioni, anche un cartello, crollato anch’esso, posto di fronte all’ingresso della chiesa, si perde nella notte dei tempi.

Due anni fa, quando per la prima volta, ero “capitata” a Leri Cavour in un assolato pomeriggio di una domenica d’estate, l’abbandono, degrado, l’incuria mi avevano quasi tolto il fiato e la parola. Nulla, purtroppo, in confronto a quanto ho trovato, e provato, solo una settimana fa. Quella domenica, mentre cercavo un po’ d’ombra seduta sul parapetto di un piccolo canale che scorre a lato della strada di fronte alla chiesa, era arrivata un’auto; ne era sceso un uomo, non più giovane, con un cane che si era tuffato, alla ricerca di un po’ di refrigerio nelle acque. Non voleva uscirne e così ci siamo offerti di dargli una mano per recuperare il reticente fuggiasco. Poche parole, poi il suo sguardo velato dalla malinconia che vagava tra la chiesa, la scuola e le case, mi avevano indotto a fargli qualche domanda. “Io sono nato qui e in questa chiesa mi sono sposato. Il mio è stato l’ultimo matrimonio celebrato a Leri. Poi la chiesa è stata chiusa. Qui, una volta c’era tanta gente”. Se, lasciando Leri, per un attimo chiudi gli occhi e lasci correre la fantasia, ti sembra di sentire ancora il vociare della gente, il “rumore” del lavoro nei campi e quello della ruota del mulino che macina la “fatica” dei giorni e dei contadini; e, forse, nelle calde sere d’estate, alzarsi qualche canto sulle note malinconiche di una fisarmonica. Ma gli occhi poi li riapri, e c’è solo il silenzio “guardato a vista” dalle torri della centrale di Trino Vercellese.

 

 

© 2020-2024 La Voce di Novara
Riproduzione Riservata