«Mi vaccino, un segno d’amore per me stessa e le altre persone». Lo ha definito il «suo buon 2021» il vaccino: protagonista un’infermiera trecatese che lavora in un grande ospedale della città di Milano e che ha scelto la via anonima perché «non voglio farmi pubblicità, ma solo sensibilizzare quanti più possibile e combattere confusione, incertezza e ignoranza».
La prima dose di vaccino le verrà somministrata tra una settimana esatta, venerdì 15 gennaio. Tanta gioia e una forte determinazione.
«Lo farò per abbracciare chi amo senza nessuna paura e per poter rivedere i nonni perché, quest’anno, per la prima volta in 28 anni, non sono andata a trovarli. Lo farò per tutte le persone care che sono volate in cielo per colpa di questo maledetto virus. Lo farò, – spiega – per rispetto dei miei pazienti e delle loro famiglie, per non dover tenere mai più in mano un tablet mentre, dall’altra parte, qualcuno in lacrime ti chiede di fare un’ultima carezza da parte sua».
Il vaccino è come una luce di speranza: «Lo farò per tornare a viaggiare e scoprire il mondo. Lo farò per non dover più indossare la mascherina che fa appannare gli occhiali, – dice sorridendo – Lo farò per il coraggio delle generazioni prima della mia che, grazie al vaccino, mi hanno permesso di vivere senza la paura della poliomielite. Lo faccio per me, ma anche per voi, per chi ci crede, per chi pensa che sia tutto un complotto dello stato vittima dei poteri forti e di Bill Gates e del 5G e dei microchip che ci spiano e di “big pharma” per gli immunodepressi, per i bimbi, per gli anziani fragili, per i giovani che rischiano comunque di finire in terapia intensiva».
L’infermiera si rivolge anche a chi non crede nella forza del vaccino: «E se non condividete la mia scelta, non criticatela, perché lo farò anche per voi».
Una luce e anche una speranza: «Nel vaccino? Speravamo tutti, a oggi è l’unica arma davvero efficace contro il virus, l’unico che bloccherà la replicazione in caso di contagio. I mesi di marzo e aprile sono stati surreali, – dice – sembrava di essere in guerra, improvvisamente il nostro lavoro è stato stravolto, molti, come me, sono stati chiamati dalle sale operatorie per supportare i colleghi delle terapie intensive, avevamo un numero di pazienti incredibile, c’era una richiesta di posti letto di rianimazione di molto superiore alla normalità».
C’è un ricordo indelebile, tra i tanti, nella mente dell’infermiera: «Una notte ha chiamato un ospedale dicendo che aveva finito l ‘ossigeno. È stato terribile. Ora siamo sicuramente più rodati sulla gestione di questi malati, ma per il bene della sanità e dell’economia dobbiamo tornare a vivere come un anno fa».