Cercasi gruppo con cui isolarsi in una casa di campagna a raccontarci novelle e ignorare il mondo fino alla fine della pandemia. Scrittura e letteratura sono risorse importanti nei momenti difficili; lo sapeva bene Boccaccio: durante la peste del 1348, che in pochi mesi causò la morte di centomila persone a Firenze e in due anni ridusse di un terzo la popolazione europea, elaborò la struttura del suo ‘Decameron’ proprio a partire da quell’evento sconvolgente, caricando un episodio reale di valore simbolico, allusivo alla fragilità della condizione umana.
La rappresentazione è resa con un’accurata analisi dei sintomi e degli effetti della malattia: bubboni neri, linfonodi ingrossati; le strade piene di morti e l’aria ammorbata dal lezzo. I tentativi di curare il male sono vani: i medici quasi nulla possono o per le insufficienti conoscenze scientifiche o per la rapidità di diffusione della malattia, che coinvolge quasi tutti.
Ma quello che più colpisce è il venir meno di tutte le inibizioni di tipo morale: ognuno cerca di salvare solo se stesso, evitando il contatto e il soccorso degli infermi, e in vari modi si reagisce allo spauracchio del contagio: persone sane si rinchiudono in casa nell’illusione che lì la malattia non entri, altri si comportano come se il male non esistesse; altri ancora si abbandonano senza ritegno ai piaceri smodati. La città, luogo per eccellenza della socialità, si fa deserta; cadono i vincoli di vicinanza, amicizia e parentela; si disgrega la famiglia, scompare il pudore.
‘E lasciamo stare che l’uno cittadino l’altro schifasse e quasi niuno avesse cura dell’altro e i parenti insieme rade volte o quasi mai si visitassero; maggior cosa e quasi non credibile, li padri e le madri, quasi non fossero loro, i figlioli di visitare e servire schifavano’.
Viene meno persino la pietas verso i morti.
‘Erano radi coloro i corpi dei quali fossero più che da dieci o dodici suoi vicini alla chiesa accompagnati;… in qualunque sepoltura disoccupata li mettevano; [di bare] se ne sarieno potute annoverare di quelle che la moglie e il marito, o due e tre fratelli, o il padre e il figliolo così ne contenevano’.
Non è tanto per sfuggire al contagio che dieci giovani si allontanano da Firenze per andare in campagna: la loro non è una fuga né un rifiuto del mondo, ma un tentativo di sottrarsi al caos, di salvaguardare i valori e il sistema di vita di quella società che si va disgregando.
E’ una donna, Pampinea, a indicare con equilibrio e saggezza un modo per salvarsi dal degrado, in circostanze in cui l’unico criterio a cui attenersi sia quello della ragione. Il rifugio è un ameno giardino circoscritto e sottratto al disordine, dove tutti si impegnano a rispettare regole di convivenza per il proprio e l’altrui bene, dove le possibilità di rimediare al caos si fondano su misura, buon senso e razionalità.
Dentro questo spazio al riparo dalla morte, raccontare storie costituisce un’attività di civile conversazione: la parola si rivela l’unico mezzo per rifondare un mondo sconvolto e a rischio di collasso. Raccontare è un viaggio all’interno di se stessi, è attraversare il male per raggiungere il bene, metabolizzare la morte e il trauma causato dall’epidemia.
Leggere Boccaccio può dunque aiutare a preservarci dall’avvelenamento della vita sociale, a difenderci dall’imbarbarimento del contesto civile, dall’istinto atavico di guardare ogni nostro simile come una minaccia e un untore. Anche se ci si sta occupando di individuare possibili scenari e strategie terapeutiche, vivremo ancora per molto tra timori e speranze, consultando da pseudo esperti dell’informazione pandemica i bollettini dei contagi e delle guarigioni; ascolteremo le mezze verità dei media miste a contraddizioni e speculazioni, travolti dalla più grande infodemia della Storia.
Intanto, tra mille difficoltà ed equilibri precari, la scuola è aperta e lì impariamo a coltivare e a trasmettere il bene più prezioso che abbiamo, la nostra umanità fatta di relazioni.
Lo storico greco Tucidide nel V secolo a. C. disse che fu la paura della peste a distruggere Atene. Non la peste.
[Immagine: J. W. Waterhouse, “A Tale From Decameron”, 1916. Liverpool, Lady Lever Art Gallery]