Ve la ricordate la grande nevicata del gennaio 1985? Una situazione senza precedenti, caos sulle strade cittadine ed extraurbane, la divisione ‘Centauro’ che schierò 150 soldati per soccorrere interi paesi rimasti isolati, black out prolungati, auto, tir e treni bloccati in un deserto bianco

Ve la ricordate la grande nevicata del gennaio 1985? Una situazione senza precedenti, caos sulle strade cittadine ed extraurbane, la divisione ‘Centauro’ che schierò 150 soldati per soccorrere interi paesi rimasti isolati, black out prolungati, auto, tir e treni bloccati in un deserto bianco.

Io avevo 20 anni e studiavo all’università a Milano, e per fortuna un unico convoglio riuscì ad arrivare a Novara su binari ghiacciati, con cinque ore di ritardo. Ricordo che, nonostante i disagi, la neve seppe regalare momenti inaspettati di svago e felicità: programmi cambiati, tempi più calmi e rilassati, rumori ovattati, memoria emotiva di giochi d’infanzia.

La neve rende unico il paesaggio, gli alberi rimandano lame di luce tra cui spicca il volo un uccellino che lascia il nido in cerca di cibo, e la brezza fa cadere i fiocchi dai rami: è bella e incantevole, anche perché fragile ed effimera.

Ed è forse l’elemento naturale che più rende consapevole l’uomo di quanto sia difficile e faticoso muoversi e che, con il suo candore, ha alimentato il potenziale simbolico delle forme artistiche.

Nessun incanto e nessuna magia hanno avvolto i soldati di Annibale quando, in una sera d’autunno del 218 a. C., mentre tramontava la costellazione delle Pleiadi, furono sorpresi dalla neve al valico delle Alpi Cozie; conobbero la severità del confronto con l’ambiente: nessuna scorciatoia, le vette e i sentieri innevati richiedono rispetto, umiltà, preparazione.

Anche se il comandante cartaginese, per rincuorare le truppe, “una volta raggiunta un’altura da dove si poteva vedere da ogni parte, ordinò ai soldati di fermarsi e mostrò loro l’Italia e la pianura intorno al fiume Po, ai piedi delle Alpi”, Livio ci ricorda che “quel cammino era insuperabile; giacché se poco era lo spessore della neve recentemente caduta su quella vecchia e intatta, e su essa, soffice e non troppo alta, i piedi si posavano con sicurezza, quando essa per il passaggio di tanti uomini e di tanti animali si fu disfatta, il cammino avveniva sul sottostante ghiaccio rimasto scoperto e tra la fluida poltiglia della neve che si scioglieva. Terribile era quivi la lotta, perché la via resa sdrucciolevole dal ghiaccio non consentiva di procedere sicuri”.

Simbolica e malinconica è invece l’atmosfera che pervade l’ode oraziana a Taliarco, che il poeta invita a vedere “come si innalza, candido per l’alta neve il Soratte, né ormai sostengono il peso le selve affaticate”.

L’attenzione al dettaglio visivo è lo spunto per una riflessione sulla caducità dell’esistenza e sulla necessaria conseguenza di vivere la vita nella sua pienezza: il ‘carpe diem’ per il poeta latino è l’unico antidoto al gelo del male di vivere.

Il ‘viso di neve’ di Madonna Laura e Beatrice è stato nella lunga tradizione lirica italiana il canone della bellezza femminile, per poi riconvertirsi nella poesia funebre barocca nel cereo pallore della morte; sempre il bianco e il gelo della neve contrastano con il nero di una fossa nel doloroso lamento di Giorgio Caproni davanti alla sepoltura del fratello: “Atque in perpetuum, frater… / Quanto inverno, quanta / neve ho attraversato, Piero, / per venirti a trovare. / Cosa mi ha accolto? / Il gelo / della tua morte, e tutta / tutta quella neve bianca / di febbraio – il nero / della tua fossa”.

Atroce invece, la distesa bianca che ha accompagnato il mortale incedere degli alpini nella sacca del Don, raccontato da Mario Rigoni Stern. In molte pagine dello scrittore la neve è custode dei ricordi, è lui stesso a dirci di avere “tante nevi nella memoria: nevi di slavine, nevi di alte quote, nevi di montagne albanesi, di steppe russe, di lande polacche”.

Anche i ricordi e gli orizzonti del premio Nobel Orhan Pamuk sono legati, in una situazione quasi onirica, alla neve: “Era una parte essenziale dell’Istanbul della mia infanzia. Come alcuni bambini che non vedono l’ora che arrivi l’estate per poter viaggiare, anch’io non vedevo l’ora che nevicasse. Non per andare in strada a giocare con la neve, ma perché la città mi pareva più bella ammantata di bianco, e non per la novità o la sorpresa che portava coprendo il fango, ma per l’atmosfera di emergenza, anzi di calamità che creava. Nonostante la città rimanesse imbiancata poco più di una settimana all’anno, la neve coglieva sempre di sorpresa gli abitanti di Istanbul; tutta la città si trovava riunita intorno allo stesso argomento. E siccome la città e gli abitanti si chiudevano in se stessi, Istanbul, nei giorni invernali di neve, mi pareva più deserta, più vicina ai suoi vecchi giorni di favola”.

Il mio orizzonte, mentre qualche giorno fa tornavo in autostrada verso casa, era magicamente riempito dalla catena delle Alpi: vedevo dalle Grigne al Monviso e, come spesso accade a chi ha familiarità con questi scenari, mi sembrava di potere toccare tutto quel bianco.

Se la memoria letteraria d’infanzia mi suggeriva la gioiosa felicità delle corse in slitta di Puškin, le sconfinate distese innevate in cui sopravvive Zanna Bianca, lo stato d’animo e il paesaggio – cartolina mi riportavano alle meditazioni di Vassalli e Campana.

“ Capita che di tanto in tanto il nulla si trasformi in un paesaggio nitidissimo, soprattutto in primavera, quando il cielo è blu come l’acqua delle risaie; con le città e le opere dell’uomo inerpicate sui fianchi delle montagne, e i fiumi che incominciano là dove finiscono le nevi […] sotto la montagna più grande e imponente di questa parte d’Europa, il Monte Rosa. Nelle giornate – cartolina il paesaggio di questi luoghi è dominato e fortemente caratterizzato dalla presenza di quella montagna di granito e ghiaccio, il macigno bianco”, che il poeta Campana vide attraverso le sbarre del carcere di Novara.

Le abbondanti nevicate di queste ultime settimane possono sembrare un segnale di normalità rispetto alla crisi climatica globale, anche se gli studi rilevano una costante riduzione di giorni con copertura nevosa su tutto l’arco alpino.

E allora, proprio perché “i fiumi incominciano là dove finiscono le nevi” e la neve determina la portata dei corsi d’acqua durante il disgelo primaverile e oltre, chiudiamo il racconto con la preghiera in versi di Gabriele d’ Annunzio: “Scendi con pace, / o neve: e le radici / difendi e i germi, / che daranno ancora / erba molta agli armenti. / All’uomo il pane. / Scendi con pace, sì che al novel tempo / da te nutriti, lungo il pian ridesto, / corran qual greggi obbedienti i fiumi.”

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Ve la ricordate la grande nevicata del gennaio 1985? Una situazione senza precedenti, caos sulle strade cittadine ed extraurbane, la divisione ‘Centauro’ che schierò 150 soldati per soccorrere interi paesi rimasti isolati, black out prolungati, auto, tir e treni bloccati in un deserto bianco

Ve la ricordate la grande nevicata del gennaio 1985? Una situazione senza precedenti, caos sulle strade cittadine ed extraurbane, la divisione ‘Centauro’ che schierò 150 soldati per soccorrere interi paesi rimasti isolati, black out prolungati, auto, tir e treni bloccati in un deserto bianco.

Io avevo 20 anni e studiavo all’università a Milano, e per fortuna un unico convoglio riuscì ad arrivare a Novara su binari ghiacciati, con cinque ore di ritardo. Ricordo che, nonostante i disagi, la neve seppe regalare momenti inaspettati di svago e felicità: programmi cambiati, tempi più calmi e rilassati, rumori ovattati, memoria emotiva di giochi d’infanzia.

La neve rende unico il paesaggio, gli alberi rimandano lame di luce tra cui spicca il volo un uccellino che lascia il nido in cerca di cibo, e la brezza fa cadere i fiocchi dai rami: è bella e incantevole, anche perché fragile ed effimera.

Ed è forse l’elemento naturale che più rende consapevole l’uomo di quanto sia difficile e faticoso muoversi e che, con il suo candore, ha alimentato il potenziale simbolico delle forme artistiche.

Nessun incanto e nessuna magia hanno avvolto i soldati di Annibale quando, in una sera d’autunno del 218 a. C., mentre tramontava la costellazione delle Pleiadi, furono sorpresi dalla neve al valico delle Alpi Cozie; conobbero la severità del confronto con l’ambiente: nessuna scorciatoia, le vette e i sentieri innevati richiedono rispetto, umiltà, preparazione.

Anche se il comandante cartaginese, per rincuorare le truppe, “una volta raggiunta un’altura da dove si poteva vedere da ogni parte, ordinò ai soldati di fermarsi e mostrò loro l’Italia e la pianura intorno al fiume Po, ai piedi delle Alpi”, Livio ci ricorda che “quel cammino era insuperabile; giacché se poco era lo spessore della neve recentemente caduta su quella vecchia e intatta, e su essa, soffice e non troppo alta, i piedi si posavano con sicurezza, quando essa per il passaggio di tanti uomini e di tanti animali si fu disfatta, il cammino avveniva sul sottostante ghiaccio rimasto scoperto e tra la fluida poltiglia della neve che si scioglieva. Terribile era quivi la lotta, perché la via resa sdrucciolevole dal ghiaccio non consentiva di procedere sicuri”.

Simbolica e malinconica è invece l’atmosfera che pervade l’ode oraziana a Taliarco, che il poeta invita a vedere “come si innalza, candido per l’alta neve il Soratte, né ormai sostengono il peso le selve affaticate”.

L’attenzione al dettaglio visivo è lo spunto per una riflessione sulla caducità dell’esistenza e sulla necessaria conseguenza di vivere la vita nella sua pienezza: il ‘carpe diem’ per il poeta latino è l’unico antidoto al gelo del male di vivere.

Il ‘viso di neve’ di Madonna Laura e Beatrice è stato nella lunga tradizione lirica italiana il canone della bellezza femminile, per poi riconvertirsi nella poesia funebre barocca nel cereo pallore della morte; sempre il bianco e il gelo della neve contrastano con il nero di una fossa nel doloroso lamento di Giorgio Caproni davanti alla sepoltura del fratello: “Atque in perpetuum, frater… / Quanto inverno, quanta / neve ho attraversato, Piero, / per venirti a trovare. / Cosa mi ha accolto? / Il gelo / della tua morte, e tutta / tutta quella neve bianca / di febbraio – il nero / della tua fossa”.

Atroce invece, la distesa bianca che ha accompagnato il mortale incedere degli alpini nella sacca del Don, raccontato da Mario Rigoni Stern. In molte pagine dello scrittore la neve è custode dei ricordi, è lui stesso a dirci di avere “tante nevi nella memoria: nevi di slavine, nevi di alte quote, nevi di montagne albanesi, di steppe russe, di lande polacche”.

Anche i ricordi e gli orizzonti del premio Nobel Orhan Pamuk sono legati, in una situazione quasi onirica, alla neve: “Era una parte essenziale dell’Istanbul della mia infanzia. Come alcuni bambini che non vedono l’ora che arrivi l’estate per poter viaggiare, anch’io non vedevo l’ora che nevicasse. Non per andare in strada a giocare con la neve, ma perché la città mi pareva più bella ammantata di bianco, e non per la novità o la sorpresa che portava coprendo il fango, ma per l’atmosfera di emergenza, anzi di calamità che creava. Nonostante la città rimanesse imbiancata poco più di una settimana all’anno, la neve coglieva sempre di sorpresa gli abitanti di Istanbul; tutta la città si trovava riunita intorno allo stesso argomento. E siccome la città e gli abitanti si chiudevano in se stessi, Istanbul, nei giorni invernali di neve, mi pareva più deserta, più vicina ai suoi vecchi giorni di favola”.

Il mio orizzonte, mentre qualche giorno fa tornavo in autostrada verso casa, era magicamente riempito dalla catena delle Alpi: vedevo dalle Grigne al Monviso e, come spesso accade a chi ha familiarità con questi scenari, mi sembrava di potere toccare tutto quel bianco.

Se la memoria letteraria d’infanzia mi suggeriva la gioiosa felicità delle corse in slitta di Puškin, le sconfinate distese innevate in cui sopravvive Zanna Bianca, lo stato d’animo e il paesaggio – cartolina mi riportavano alle meditazioni di Vassalli e Campana.

“ Capita che di tanto in tanto il nulla si trasformi in un paesaggio nitidissimo, soprattutto in primavera, quando il cielo è blu come l’acqua delle risaie; con le città e le opere dell’uomo inerpicate sui fianchi delle montagne, e i fiumi che incominciano là dove finiscono le nevi […] sotto la montagna più grande e imponente di questa parte d’Europa, il Monte Rosa. Nelle giornate – cartolina il paesaggio di questi luoghi è dominato e fortemente caratterizzato dalla presenza di quella montagna di granito e ghiaccio, il macigno bianco”, che il poeta Campana vide attraverso le sbarre del carcere di Novara.

Le abbondanti nevicate di queste ultime settimane possono sembrare un segnale di normalità rispetto alla crisi climatica globale, anche se gli studi rilevano una costante riduzione di giorni con copertura nevosa su tutto l’arco alpino.

E allora, proprio perché “i fiumi incominciano là dove finiscono le nevi” e la neve determina la portata dei corsi d’acqua durante il disgelo primaverile e oltre, chiudiamo il racconto con la preghiera in versi di Gabriele d’ Annunzio: “Scendi con pace, / o neve: e le radici / difendi e i germi, / che daranno ancora / erba molta agli armenti. / All’uomo il pane. / Scendi con pace, sì che al novel tempo / da te nutriti, lungo il pian ridesto, / corran qual greggi obbedienti i fiumi.”

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