L’amore di Manzoni per la verità e la giustizia lo porta, nei capitoli del suo romanzo dedicati alla peste del 1630, a concentrarsi su un delirio collettivo e su una iniquità processuale, volendo proprio ristabilire una verità di fronte ad un passato che chiede giustizia.
Dopo aver ampiamente dimostrato le responsabilità delle istituzioni politiche e sanitarie nella diffusione del contagio, individua i meccanismi che hanno portato alla negazione delle cause naturali e alla costruzione del mito degli untori: “Ho creduto che non fosse fuor di proposito il riferire e il mettere insieme questi particolari, perché negli errori e massime negli errori di molti, ciò che è più interessante e più utile a osservarsi, mi pare che sia appunto la strada che hanno fatta, l’apparenze, i modi con cui hanno potuto entrar nelle menti, e dominarle”.
Manzoni parla di “cieca e insensata paura”, mette a nudo il mancato controllo delle pulsioni, ma parla anche di negligenza e di malvagità: la storia di questo delirio non e’ solo psicologica, ma storia di una macchinazione e di una cattiva coscienza sociale che nega la realtà mettendo in scena evidenze visive:
“Alcuni, ai quali era parso di vedere, la sera del 17 di maggio, persone in duomo andare ungendo un assito che serviva a dividere gli spazi assegnati a’ due sessi, fecero, nella notte, portar fuori della chiesa l’assito e una quantità di panche rinchiuse in quello. […] La mattina seguente, un nuovo e più strano, più significante spettacolo colpì gli occhi e le menti de’ cittadini. In ogni parte della città, si videro le porte delle case e le muraglie, per lunghissimi tratti, intrise di non so che sudiceria, giallognola, biancastra, sparsavi come con delle spugne. O sia stato un gusto sciocco di far nascere uno spavento più rumoroso e più generale, o sia stato un più reo disegno d’accrescer la pubblica confusione, o non saprei che altro”.
Manzoni dice apertamente che è in atto un processo di formazione dell’opinione pubblica attraverso una distorta interpretazione dei segni: ogni gesto, ogni fatto prelevato a forza dal contesto quotidiano e consuetudinario, viene trasformato in sintomo di un unico ossessivo significato.
Sono visti come untori coloro che vengono riconosciuti come stranieri dall’abito, si lincia un vecchio perché ha spolverato una panca; qualcuno chiede la strada togliendosi il cappello, e subito si pensa che celi nella tesa la polvere da lanciare sulla vittima, qualcuno tocca la facciata del duomo per saggiare la consistenza della pietra e la folla si precipita imbestialita: salta il sistema delle aspettative normali, non si vede più nulla, anzi si vede ovunque lo stesso segno, unzioni e untori.
Nella finzione del romanzo Renzo viene scambiato per untore.
In cerca di notizie su Lucia, bussa insistentemente alla porta della casa che l’ha ospitata, ma una vecchia arcigna lo sta osservando, una vecchia che e’ l’emblema del sadismo e della malignità di chi vorrebbe far acchiappare un sospetto:
“Renzo afferrò ancora il martello, e, così appoggiato alla porta, andava stringendolo e storcendolo, l’alzava per picchiar di nuovo alla disperata, poi lo teneva sospeso. In quest’agitazione, si voltò per vedere se mai ci fosse d’intorno qualche vicino, da cui potesse forse aver qualche informazione più precisa. Ma la prima, l’unica persona che vide, fu una donna, distante forse un venti passi; la quale, con un viso ch’esprimeva terrore, odio, impazienza e malizia, con cert’occhi stravolti che volevano insieme guardar lui, e guardar lontano, spalancando la bocca come in atto di gridare a più non posso, ma rattenendo anche il respiro, alzando due braccia scarne, allungando e ritirando due mani grinzose e piegate a guisa d’artigli, come se cercasse d’acchiappar qualcosa, si vedeva che voleva chiamar gente, in modo che qualcheduno non se n’accorgesse. Quando s’incontrarono a guardarsi, colei, fattasi ancor più brutta, si riscosse come persona sorpresa. […] Questa, perduta la speranza di poterlo far cogliere all’improvviso, lasciò scappare il grido che aveva rattenuto fin allora: L’untore! Dagli! dagli! Dagli all’untore!”.
Questo episodio del capitolo 34 è una prova di quanto siano complementari il romanzo e la ‘Storia della colonna infame’: l’opera di finzione mostra una profonda aderenza al vero storico, il racconto – inchiesta testimonia “cose che in un romanzo sarebbero tacciate di inverosimiglianza”.
La ‘Storia della colonna infame’ è lo smontaggio del processo che vide davvero condannati a morte dei presunti untori nella Milano del 1630: è un atto di coraggio che consiste nel dire fino a che punto, nonostante la stoltezza di un’istituzione come la tortura, nonostante la credenza nei venefici, era comunque consentito agire bene e chiudere il processo senza morti innocenti. L’ appendice del romanzo esordisce con un episodio simile a quello di Renzo:
“I capri espiatori ebbero un volto quando una mattina due donne si affacciarono dal balcone di casa e videro un commissario della sanità di Milano che stava ispezionando delle pareti, forse proprio per accertare se c’erano o non c’erano unzioni. Bene, le donne diffusero subito la diceria, diventata ben presto fama, che l’uomo stesse avvelenando Milano. Si chiamava Guglielmo Piazza, arrestato poco dopo quando la voce arrivò a un magistrato”.
Perché mai, osserva Don Lisander, un untore avrebbe dovuto compiere le sue malefiche operazioni alla luce del sole e con due testimoni alla finestra? Perché avrebbe maneggiato senza alcuna precauzione una materia venefica che si diceva seminasse la peste?
Se il grande illuminista Pietro Verri sostenne che l’errore giudiziario fosse da imputare all’ignoranza dei tempi e all’uso della tortura, per cui era sufficiente cambiare il sistema per eliminare il male, Manzoni osa di più: “Una cattiva istituzione non s’applica da sé. Certo, non era un effetto necessario del credere all’efficacia dell’unzioni pestifere, il credere che Guglielmo Piazza e Giangiacomo Mora le avessero messe in opera; come dell’esser la tortura in vigore non era effetto necessario che fosse fatta soffrire a tutti gli accusati, né che tutti quelli a cui si faceva soffrire, fossero sentenziati colpevoli”.
La verità è evidente: “Que’ giudici condannaron degl’innocenti, che essi, con la più ferma persuasione dell’efficacia dell’unzioni, e con una legislazione che ammetteva la tortura, potevano riconoscere innocenti; e che anzi, per trovarli colpevoli, per respingere il vero che ricompariva ogni momento, in mille forme, e da mille parti, con caratteri chiari allora com’ora, come sempre, dovettero fare continui sforzi d’ingegno, e ricorrere a espedienti, de’ quali non potevano ignorar l’ingiustizia”.
Sarà Leonardo Sciascia a ribadire che la ‘Storia della colonna infame’ pone interrogativi mai superati: nella Milano del 1630 si materializzano meccanismi mentali e reazioni che non si possono ritenere definitivamente sepolti nei tempi andati della superstizione o giustificati con l’ignoranza.
E’ in gioco la responsabilità del singolo, anche all’interno di un sistema che fa sembrare naturale l’orrore, un ambiente inquinato dal pregiudizio e dalla compattezza della follia collettiva: la certezza che gli untori fossero responsabili della peste è la stessa che spingeva tanti tedeschi a pensare seriamente che gli ebrei fossero responsabili di una congiura antigermanica.
La nostra storia ha prodotto ininterrottamente capri espiatori: minoranze, intere popolazioni e comportamenti sono stati stigmatizzati; sono accadute vicende impensabili, ma poi c’è un tessuto che continua ad innervare il presente, anche là dove l’evoluzione sociale e il progresso materiale avrebbero dovuto cancellarlo.
Sono ricomparse sulle facciate delle case le stelle di David.
Perché, dice Primo Levi, “la peste si è spenta, ma l’infezione serpeggia: sarebbe sciocco negarlo”.