La storia della mia vita mi ha portata spesso tanti anni fa tra le stradine di Pasturo, un piccolo paese della Valsassina in provincia di Lecco, sui sentieri e sulla cima della Grigna, montagna arida e aspra, ma da cui nelle notti serene si gode di un silenzioso cielo stellato e si spinge la vista fino alla pianura lontana.

E’ lì che ho sentito parlare per la prima volta della poetessa Antonia Pozzi, dotata di una capacità di sguardo acutissimo nel descrivere e fotografare quelle sue amate montagne, e soprattutto di scrutare tra le pieghe di un cuore travagliato.

Era nata a Milano nel 1912, e aveva tutto per essere felice: una facoltosa famiglia alto – borghese (padre avvocato e madre aristocratica, discendente dello scrittore Tommaso Grossi), studi prestigiosi, frequentazioni esclusive, un palco alla Scala, stimoli dal mondo intellettuale e viaggi. Era una bellezza raffinata in stile anni Trenta, ipersensibile ma non fragile, anzi forte, vitale e curiosa.

L’amore per il suo professore di greco e latino Antonio Maria Cervi, nato nel segno del pudore, dell’affinità e dei comuni interessi, ha certamente segnato il suo destino; la relazione fu osteggiata dal padre, per moralismi di rispettabilità borghese, e da allora Antonia è andata in cerca di un affetto fermo e fedele come argine alla solitudine, alle delusioni, ai fallimenti di altri legami, affidando alla poesia la catarsi del dolore: ‘Come in una fiaba / triste – un altro giardino / si chiude – al margine della strada’.

Non per questo i suoi versi sono limitati ad un orizzonte autobiografico, bensì nutriti di una tensione costante a conoscere il senso delle cose e il dolore universale, a includere, lei così privilegiata, bambini e madri povere, ingiustizie, periferie e fabbriche.

La sepoltura della poetessa. Giannino Castiglioni, Cristo delle Beatitudini. 1940

Ma è alla natura e alla sua bellezza che guarda come spazio sacro ed eletto per la creazione poetica: la capacità del suo sguardo di trasformare il paesaggio in un luogo del cuore si rivela nella bravura di fotografa e nella scelta accurata di versi scarni ed essenziali, fatti di parole precise senza orpelli e aggettivi inutili: le mot juste, come diceva Flaubert, a cui non a caso la poetessa ha dedicato la tesi di laurea.

Le immagini nascono spesso dai luoghi famigliari: ‘Ricordo che, quand’ero nella casa / della mia mamma, in mezzo alla pianura, / avevo una finestra che guardava / sui prati; in fondo, l’argine boscoso / nascondeva il Ticino e, ancor più in fondo, c’era una striscia scura di colline… Verso sera fissavo l’orizzonte; socchiudevo un po’ gli occhi…. E la striscia dei colli si spianava, / tremula, azzurra: a me pareva il mare /e mi piaceva più del mare vero’.

Lo sguardo di Antonia arriva a creare ciò che sfugge agli occhi, con un sentimento di nostalgia che è proprio dell’amore di lontananza.

La bellezza dell’universo intero, raccolta nei suoi occhi, diventa un dono da fare all’amato: ‘Ti do me stessa, / le mie notti insonni, / i lunghi sorsi / di cielo e stelle – bevuti / sulle montagne, / la brezza dei mari percorsi / verso albe remote’.

Gli occhi dell’amato però, ‘così densi di cielo, profondi come secoli di luce’ sono lontani, ‘inabissati al di là / delle vette’: la Terra non è luogo dove possa realizzarsi il desiderio di felicità sfuggente all’uomo; la realtà della vita tradisce, Antonia lo avverte da sempre: ‘Quel che a volte ti senti urlare in cuore/…è un abbaglio / l’abbaglio estremo / dei tuoi occhi malati -/ e ciò che fingevi la meta / è un sogno, / il sogno infame / della tua debolezza’.

C’è stato un momento evidentemente, in cui la bellezza del mondo ha smesso di parlarle, e sono rimasti soltanto il dolore, le aspettative deluse, ‘una invincibile disperazione mortale’, i segni indelebili di rimpianto: ‘Chi mi vende oggi i fiori? / Io ne ho tanti nel cuore, ma calpestati’; si è sentita respinta, ‘Sempre così smisuratamente sperduta ai margini della vita reale. Forse davvero il mio destino sarà di scrivere dei bei libri per i bambini che non avrò avuti’.

Dopo il suicidio, il 3 Dicembre 1938, verrà sepolta a Pasturo ai piedi della Grigna, nei luoghi che lei stessa definisce un nido: ‘Qui sono le mie radici, perché ad ogni ritorno tra questi muri, fra queste cose fedeli e uguali, di volta in volta ho deposto e chiarificato a me stessa i miei pensieri, i miei sentimenti più veri’.

Dalla sua finestra vedeva ‘un pezzo di prato libero che mi piace. Vorrei che mi portassero giù un bel pietrone della Grigna e vi piantassero ogni anno rododendri, stelle alpine e muschi di montagna; pensare d’esser sepolta qui non è nemmeno morire: è un tornare alle radici’.

‘Una sera / la tua montagna si ricorderà / di averti avuta / bambina / sul suo grembo d’erba… Il tuo sentiero ti ricondurrà / lungo la valle, / per la conca prativa – al muro candido, / al cancello socchiuso. / Lassù, nel breve orto disteso / ai ritorni delle stagioni, ai cieli / della neve e dei venti / primaverili, / verranno bocche / di bambini sconosciuti / a cantare / sulla tua solitudine’.

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Dormi sulle cime dei monti

La storia della mia vita mi ha portata spesso tanti anni fa tra le stradine di Pasturo, un piccolo paese della Valsassina in provincia di Lecco, sui sentieri e sulla cima della Grigna, montagna arida e aspra, ma da cui nelle notti serene si gode di un silenzioso cielo stellato e si spinge la vista fino alla pianura lontana.

E’ lì che ho sentito parlare per la prima volta della poetessa Antonia Pozzi, dotata di una capacità di sguardo acutissimo nel descrivere e fotografare quelle sue amate montagne, e soprattutto di scrutare tra le pieghe di un cuore travagliato.

Era nata a Milano nel 1912, e aveva tutto per essere felice: una facoltosa famiglia alto – borghese (padre avvocato e madre aristocratica, discendente dello scrittore Tommaso Grossi), studi prestigiosi, frequentazioni esclusive, un palco alla Scala, stimoli dal mondo intellettuale e viaggi. Era una bellezza raffinata in stile anni Trenta, ipersensibile ma non fragile, anzi forte, vitale e curiosa.

L’amore per il suo professore di greco e latino Antonio Maria Cervi, nato nel segno del pudore, dell’affinità e dei comuni interessi, ha certamente segnato il suo destino; la relazione fu osteggiata dal padre, per moralismi di rispettabilità borghese, e da allora Antonia è andata in cerca di un affetto fermo e fedele come argine alla solitudine, alle delusioni, ai fallimenti di altri legami, affidando alla poesia la catarsi del dolore: ‘Come in una fiaba / triste – un altro giardino / si chiude – al margine della strada’.

Non per questo i suoi versi sono limitati ad un orizzonte autobiografico, bensì nutriti di una tensione costante a conoscere il senso delle cose e il dolore universale, a includere, lei così privilegiata, bambini e madri povere, ingiustizie, periferie e fabbriche.

La sepoltura della poetessa. Giannino Castiglioni, Cristo delle Beatitudini. 1940

Ma è alla natura e alla sua bellezza che guarda come spazio sacro ed eletto per la creazione poetica: la capacità del suo sguardo di trasformare il paesaggio in un luogo del cuore si rivela nella bravura di fotografa e nella scelta accurata di versi scarni ed essenziali, fatti di parole precise senza orpelli e aggettivi inutili: le mot juste, come diceva Flaubert, a cui non a caso la poetessa ha dedicato la tesi di laurea.

Le immagini nascono spesso dai luoghi famigliari: ‘Ricordo che, quand’ero nella casa / della mia mamma, in mezzo alla pianura, / avevo una finestra che guardava / sui prati; in fondo, l’argine boscoso / nascondeva il Ticino e, ancor più in fondo, c’era una striscia scura di colline… Verso sera fissavo l’orizzonte; socchiudevo un po’ gli occhi…. E la striscia dei colli si spianava, / tremula, azzurra: a me pareva il mare /e mi piaceva più del mare vero’.

Lo sguardo di Antonia arriva a creare ciò che sfugge agli occhi, con un sentimento di nostalgia che è proprio dell’amore di lontananza.

La bellezza dell’universo intero, raccolta nei suoi occhi, diventa un dono da fare all’amato: ‘Ti do me stessa, / le mie notti insonni, / i lunghi sorsi / di cielo e stelle – bevuti / sulle montagne, / la brezza dei mari percorsi / verso albe remote’.

Gli occhi dell’amato però, ‘così densi di cielo, profondi come secoli di luce’ sono lontani, ‘inabissati al di là / delle vette’: la Terra non è luogo dove possa realizzarsi il desiderio di felicità sfuggente all’uomo; la realtà della vita tradisce, Antonia lo avverte da sempre: ‘Quel che a volte ti senti urlare in cuore/...è un abbaglio / l’abbaglio estremo / dei tuoi occhi malati -/ e ciò che fingevi la meta / è un sogno, / il sogno infame / della tua debolezza’.

C’è stato un momento evidentemente, in cui la bellezza del mondo ha smesso di parlarle, e sono rimasti soltanto il dolore, le aspettative deluse, ‘una invincibile disperazione mortale’, i segni indelebili di rimpianto: ‘Chi mi vende oggi i fiori? / Io ne ho tanti nel cuore, ma calpestati’; si è sentita respinta, ‘Sempre così smisuratamente sperduta ai margini della vita reale. Forse davvero il mio destino sarà di scrivere dei bei libri per i bambini che non avrò avuti’.

Dopo il suicidio, il 3 Dicembre 1938, verrà sepolta a Pasturo ai piedi della Grigna, nei luoghi che lei stessa definisce un nido: ‘Qui sono le mie radici, perché ad ogni ritorno tra questi muri, fra queste cose fedeli e uguali, di volta in volta ho deposto e chiarificato a me stessa i miei pensieri, i miei sentimenti più veri’.

Dalla sua finestra vedeva ‘un pezzo di prato libero che mi piace. Vorrei che mi portassero giù un bel pietrone della Grigna e vi piantassero ogni anno rododendri, stelle alpine e muschi di montagna; pensare d’esser sepolta qui non è nemmeno morire: è un tornare alle radici’.

‘Una sera / la tua montagna si ricorderà / di averti avuta / bambina / sul suo grembo d’erba… Il tuo sentiero ti ricondurrà / lungo la valle, / per la conca prativa – al muro candido, / al cancello socchiuso. / Lassù, nel breve orto disteso / ai ritorni delle stagioni, ai cieli / della neve e dei venti / primaverili, / verranno bocche / di bambini sconosciuti / a cantare / sulla tua solitudine’.

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