L’idillio è un piccolo quadro di natura, georgico o pastorale, trasmesso attraverso un breve componimento lirico e improntato ad una serena e tranquilla atmosfera. Ne siamo debitori alla letteratura greca; sebbene quella del mondo antico non possa essere considerata ecologia nel senso moderno del termine, la sacralita’ della natura, che e’ uno dei presupposti in cui ancora una parte dell’ecologismo contemporaneo sembra riconoscersi, si lega ad una precisa figura dell’immaginario letterario, il motivo topico del locus amoenus, uno spazio in cui ricorrono elementi fissi con poche variazioni: una vegetazione fresca e ombrosa, il mormorio di un corso d’acqua cristallina, una leggera brezza e il canto degli uccelli.
E’ un luogo di pace e di armonia dove l’anima trova ristoro e stabilita’, dove i protagonisti delle opere cercano sosta e riposo, rifugio dai pericoli, dalle fatiche, dalle pene dall’amore, dal caos cittadino e dalla guerra. Il locus amoenus è già presente nell’epica di Omero, nell’incantevole dimora di Calipso, la ninfa che tiene con sè Odisseo per sette lunghi anni: “Si sentiva per l’isola l’odore del tenero cedro e di tuia che bruciavano; un bosco rigoglioso cingeva quell’antro: vi crescevano pioppi, ontani e cipressi odorosi. Uccelli dalle grandi ali avevano fatto il loro nido: gufi, sparvieri e le ciarliere cornacchie di mare; attorno alla grotta profonda, vigorosa si allungava una vite, piena di grappoli; quattro fonti facevano sgorgare acqua limpida, intorno vi erano morbidi prati fioriti di viole”.
L’impossibilità dell’idillio è una scelta consapevole di Odisseo, che non cede al fascino di una vita beata ed eterna, ma sceglie il rischio, la dimensione umana degli affetti e delle sofferenze, e nel 1987 Antonio Tabucchi immagina che la stessa Calipso scriva una lettera all’eroe, piena della malinconia e dell’angoscia di chi nel paesaggio ameno e nell’immortalità non vede più un privilegio ma un limite, destinata a rimanere sola nell’immutabilità del suo paradiso: “Nessun inverno intorbida le acque dei ruscelli di Ogigia. Guardo le mie mani immutabili e bianche; la notte guardo gli spazi fra le stelle, vedo il vuoto senza misura: e ciò che voi umani travolge e porta via, qui è un fisso momento privo di inizio e di fine. Ah, Odisseo, poter sfuggire a questo verde perenne! potere accompagnare le foglie che ingiallite cadono e vivere con esse il momento! sapermi mortale”.
Se Omero offre già il superamento del paradigma, certo ai nostri occhi di moderni, divisi tra la perdita di una dimensione naturale e territoriale e il desiderio di recuperare un rinnovato rapporto con l’ambiente, rileggere questi paesaggi restituisce almeno nelle idee l’armonia perduta.
Questa natura – giardino in cui cercare un sereno contatto e un rifugio dalla storia trova la sua codificazione nella poesia di Teocrito, che in eta’ ellenistica, nonostante l’avvento di una società cosmopolita, riusci’ a creare e a cantare un mondo ‘altro’, a entrare in una dimensione, per quanto idealizzata e utopica, lontana dalle logiche e dalle regole di una vita frenetica e caotica.
Teocrito crea un mondo pastorale / bucolico per definizione pre – civile, tipico delle società arcaiche, un sogno letterario all’interno del quale ritrovare un rapporto armonico con la natura: ci porta fuori dalla polis, dicendo che c’è un altro luogo dove l’attività dell’uomo può avere un significato.
Nel mondo campestre i suoi pastori sanno ancora ascoltare le voci della natura e della propria interiorità: “E ci sdraiammo allegri sugli alti letti di soffice lentisco e sui pampini tagliati di recente. Sopra di noi stormivano pioppi e olmi, e lì vicino una sorgente sacra si versava mormorando dalla grotta delle ninfe, cantavano le allodole e i cardellini. Dolce, o capraio, è il mormorio del pino, dolce la musica della tua zampogna”.
Questo paesaggio dell’anima è destinato a rimanere a lungo patrimonio della cultura occidentale grazie alla sensibilità e alla raffinatezza della poesia virgiliana, che negli scenari ideali introduce una nota di malinconia come traccia dei contrasti della Storia. Il pastore Melibeo, colpito dall’esproprio delle terre negli anni delle guerre civili, abbandona la sua patria, mentre Titiro, ‘disteso all’ombra di un ampio faggio’, ha conservato le sue terre e la sua serenità e si rammarica che Melibeo non possa trattenersi con lui: “Stanotte potevi riposare qui con me su un giaciglio di verdi frasche, abbiamo frutti maturi, tenere castagne e latte in abbondanza. E già lontano fumano i tetti dei casolari e più lunghe dall’alto dei monti discendono le ombre”.
Il locus amoenus del bosco del Montello è lo scenario incontaminato in cui monsignor Giovanni della Casa aveva ambientato nel ‘500 il ‘Galateo’, il suo trattato di buone maniere per educare l’uomo, perché lo sforzo della razionalità umana dia ordine ai comportamenti e contenga gli impulsi primordiali. Nel 1978 ‘Il galateo in bosco’ di Andrea Zanzotto riporta l’attenzione sul colle trevigiano diventato ‘locus horridus’ negli anni dei duri combattimenti della Grande Guerra, emblema di come un Eden possa essere straziato dalla violenza umana, e più di recente dal turismo di massa.
Nella poesia contemporanea dunque, il topos va incontro ad un netto rovesciamento.
Già nei versi di primo Novecento non zampillano più fonti di acqua limpida e cristallina, il paesaggio di Montale è aspro e secco, il poeta sosta ‘presso un rovente muro d’orto’, ascolta ‘tra pruni e sterpi schiocchi di merli’, osserva ‘crepe nel suolo’ o ‘un polveroso prato’; la metaforica bufera della guerra soffia nella stagione dell’antica età dell’oro: “La tempesta di primavera ha sconvolto / l’ombrello del salice, / al turbine d’aprile / s’è impigliato nell’orto il vello d’oro”.
Camillo Sbarbaro, un altro poeta ligure come Montale e da lui molto apprezzato, sembra voler riproporre le forme stereotipate del bel paesaggio unicamente per sottolineare l’aspirazione frustrata dell’uomo moderno a ricercare nella natura una traccia di vita autentica: “Talora nell’arsura della via / un canto di cicale mi sorprende. / E subito ecco m’empie la visione / di campagne prostrate nella luce… / E stupisco che ancora al mondo sian / gli alberi e l’acque, / tutte le cose buone della terra / che bastavano un giorno a smemorarmi… / Con questo stupor sciocco l’ubriaco / riceve in viso l’aria della notte. / Ma poi che sento l’anima aderire / ad ogni pietra della città sorda / com’albero con tutte le radici, / sorrido a me indicibilmente e come / per uno sforzo d’ali i gomiti alzo…”.
Un’autenticità di vita soffocata dall’imporsi della civiltà industriale e da un paesaggio aridamente cittadino, emblema di desolazione interiore.
Immagine: Jan Brueghel il Vecchio, Grotta fantastica con Odisseo e Calipso, 1616