Madrid, 11 Luglio 1982. Stadio Santiago Bernabeu.

E chi se la scorda quella finale dei Mondiali di calcio. L’Italia di Bearzot, Zoff, Pablito Rossi, dello ‘zio’ Bergomi e del ‘bell’Antonio’ Cabrini, l’urlo di Tardelli, il Presidente Pertini che esulta in tribuna e gioca a scopone in aereo con Causio; quell’Italia batte la Germania dell’Ovest 3 – 1 dopo un inizio di torneo deludente, polemiche e silenzio stampa, e ci regala una notte di sana follia.

Almeno per come me lo ricordo io, era ancora un calcio fatto di audacia e umiltà, di calciatori senza tatuaggi e piercing, che non frequentavano veline e Instagram.

Ci siamo tutti divertiti e inorgogliti, gratificati e ritrovati nel senso di appartenenza ad un paese ricco di cultura, ingegno e natura; non ci interessavano il business che governa quel mondo, né le logiche finanziarie di squadre quotate in Borsa; le nostre giornate non erano ossessionate da un calciomercato pervasivo.

Il calcio era davvero emblema di accettazione delle regole, fair play, cultura della sconfitta.

Ancora prima che si affermasse come fatto di costume e spettacolo mediatico, l’arte e la letteratura lo hanno raccontato come evento capace di investire una ricca varietà di motivi psicologici ed emozionali.

Ai poeti interessano l’esaltazione del gesto atletico e della figura leggendaria di un campione, la naturale tendenza dello sport a trasfigurare il fascino della sfida agonistica in specchio dell’esistenza: da molti considerato come forma di distrazione di massa, il calcio può diventare occasione di riflettere sulla vita e sul fare poesia.

Giovanni Raboni dedica alcuni suoi versi alla ‘Zona Cesarini’, ai concitati momenti nei minuti conclusivi di una partita, così chiamata dal nome dell’eroe del pallone, Renato Cesarini, che nella Juventus degli anni Trenta realizzò molti goal decisivi agli sgoccioli dei 90 minuti.

Mentre si svolge una confusa azione che potrebbe cambiare il risultato dell’incontro, un attaccante vede respinto il suo tiro in rete; deluso e affranto, non riesce a capire chi lo abbia ribattuto: il portiere?, un avversario capitato sulla traiettoria del pallone?, un compagno di squadra che ha disatteso gli schemi del mister e ha creato confusione?. Sono gli ultimi secondi di gioco, se la palla fosse entrata avrebbe cambiato il destino della gara, ma l’esultanza liberatoria dopo il goal è ormai soltanto un sogno irrealizzato.

‘Il tiro, maledizione, ribattuto / sulla linea nell’ultima convulsa / mischia a portiere
nettamente fuori casa, fuori causa, col dito / mignolo, con la spalla, con l’occipite, con / la radice del naso / dell’avversario accorso, guarda caso, / da metà campo – o forse (chi capiva / più niente con quel buio) dal compagno / che va in cerca di gloria
a scapito evidente degli schemi /non più tardi di ieri ribaditi / nella fantastica pace del ritiro / dal mister quando ancora / tutto, anche vincere, anche /azzeccare questo tiro teso, radente, tra decine / di gambe e lentamente / spalancando la bocca / correre verso il centro, rotolarsi / nell’erba, in lenta muta sfida stendere / le braccia al cielo era possibile…’.

Un unico periodo dal ritmo incalzante, che ci tiene in sospeso, senza una proposizione principale, rispecchiando l’ansia dell’azione e la speranza delusa della rete mancata.

Antonio Cabrini, uno dei maggiori interpreti a livello mondiale del ruolo di terzino sinistro, la rete la mancò nella finale del 1982, un rigore al 25° del primo tempo: frastornato dopo l’errore, ancora oggi non si dà pace quando ci pensa. Ma nessuno ci ha fatto più caso, perché la partita ebbe comunque una svolta.

E’ andata invece peggio a Roberto Baggio, un giocatore che riunisce in sé la genialità calcistica e il peso di una bruciante sconfitta; lui sbagliò il rigore decisivo ai Mondiali il 17 Luglio del 1994 a Pasadena: Brasile – Italia 3 a 2, dopo i tiri dal dischetto.

De Gregori aveva già cantato che ‘non è da un calcio di rigore che si giudica un giocatore’, anche se in quel momento era difficile pensare che fosse vero.

Sempre Raboni dedica una lode al ‘Divin codino’: talento, eleganza sul campo e nella vita privata, genialità nel gioco sono associati per sempre ad un errore davanti a milioni di telespettatori, alimentando il mito di campione triste, ma aumentandone paradossalmente la popolarità. Ogni pregiudizio sul calcio viene messo a tacere di fronte alla leggerezza con cui Baggio si muove e sposta il pallone da un piede all’altro, alla disinvoltura che porta a credere che ciò che sta facendo sia semplice

Come spesso sembra anche quando leggiamo i versi ‘facili’ di una poesia:

‘Ah suonatori di piffero, / di tamburello, di viola / state un po’ zitti se vola
con penne o piume di zeffiro / nella stravagante spola / da un piede all’altro, nel vivido / organizzarsi del brivido / fra la tomaia e la suola / sezionando come un raggio
(sì, laser più che persona) / l’area non più di rigore / a distrarci dall’orrore
che senza colpa impersona / l’imponderabile Baggio
‘.

Il calcio, la poesia, due grandi campioni indiscussi insegnano a metabolizzare le frustrazioni, a ridimensionare le ambizioni di gloria; possono spiegare a tanti ragazzini, e ai loro padri invasati che insultano gli arbitri, che si lotta fino a quando è concesso, ma ci si può scontrare con un avversario più forte, con l’inesorabilità di 90 minuti contrapposta al tempo soggettivo delle nostre speranze.

Meglio ascoltare un altro pezzo della storia di De Gregori: ‘Nino mise il cuore dentro le scarpe e corse più veloce del vento’.

[Immagine: Gli Azzurri con la Coppa del Mondo 1982]

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Il lusso di sbagliare un rigore

Madrid, 11 Luglio 1982. Stadio Santiago Bernabeu.

E chi se la scorda quella finale dei Mondiali di calcio. L’Italia di Bearzot, Zoff, Pablito Rossi, dello ‘zio’ Bergomi e del ‘bell’Antonio’ Cabrini, l’urlo di Tardelli, il Presidente Pertini che esulta in tribuna e gioca a scopone in aereo con Causio; quell’Italia batte la Germania dell’Ovest 3 – 1 dopo un inizio di torneo deludente, polemiche e silenzio stampa, e ci regala una notte di sana follia.

Almeno per come me lo ricordo io, era ancora un calcio fatto di audacia e umiltà, di calciatori senza tatuaggi e piercing, che non frequentavano veline e Instagram.

Ci siamo tutti divertiti e inorgogliti, gratificati e ritrovati nel senso di appartenenza ad un paese ricco di cultura, ingegno e natura; non ci interessavano il business che governa quel mondo, né le logiche finanziarie di squadre quotate in Borsa; le nostre giornate non erano ossessionate da un calciomercato pervasivo.

Il calcio era davvero emblema di accettazione delle regole, fair play, cultura della sconfitta.

Ancora prima che si affermasse come fatto di costume e spettacolo mediatico, l’arte e la letteratura lo hanno raccontato come evento capace di investire una ricca varietà di motivi psicologici ed emozionali.

Ai poeti interessano l’esaltazione del gesto atletico e della figura leggendaria di un campione, la naturale tendenza dello sport a trasfigurare il fascino della sfida agonistica in specchio dell’esistenza: da molti considerato come forma di distrazione di massa, il calcio può diventare occasione di riflettere sulla vita e sul fare poesia.

Giovanni Raboni dedica alcuni suoi versi alla ‘Zona Cesarini’, ai concitati momenti nei minuti conclusivi di una partita, così chiamata dal nome dell’eroe del pallone, Renato Cesarini, che nella Juventus degli anni Trenta realizzò molti goal decisivi agli sgoccioli dei 90 minuti.

Mentre si svolge una confusa azione che potrebbe cambiare il risultato dell’incontro, un attaccante vede respinto il suo tiro in rete; deluso e affranto, non riesce a capire chi lo abbia ribattuto: il portiere?, un avversario capitato sulla traiettoria del pallone?, un compagno di squadra che ha disatteso gli schemi del mister e ha creato confusione?. Sono gli ultimi secondi di gioco, se la palla fosse entrata avrebbe cambiato il destino della gara, ma l’esultanza liberatoria dopo il goal è ormai soltanto un sogno irrealizzato.

‘Il tiro, maledizione, ribattuto / sulla linea nell’ultima convulsa / mischia a portiere
nettamente fuori casa, fuori causa, col dito / mignolo, con la spalla, con l’occipite, con / la radice del naso / dell’avversario accorso, guarda caso, / da metà campo – o forse (chi capiva / più niente con quel buio) dal compagno / che va in cerca di gloria
a scapito evidente degli schemi /non più tardi di ieri ribaditi / nella fantastica pace del ritiro / dal mister quando ancora / tutto, anche vincere, anche /azzeccare questo tiro teso, radente, tra decine / di gambe e lentamente / spalancando la bocca / correre verso il centro, rotolarsi / nell’erba, in lenta muta sfida stendere / le braccia al cielo era possibile…’.

Un unico periodo dal ritmo incalzante, che ci tiene in sospeso, senza una proposizione principale, rispecchiando l’ansia dell’azione e la speranza delusa della rete mancata.

Antonio Cabrini, uno dei maggiori interpreti a livello mondiale del ruolo di terzino sinistro, la rete la mancò nella finale del 1982, un rigore al 25° del primo tempo: frastornato dopo l’errore, ancora oggi non si dà pace quando ci pensa. Ma nessuno ci ha fatto più caso, perché la partita ebbe comunque una svolta.

E’ andata invece peggio a Roberto Baggio, un giocatore che riunisce in sé la genialità calcistica e il peso di una bruciante sconfitta; lui sbagliò il rigore decisivo ai Mondiali il 17 Luglio del 1994 a Pasadena: Brasile – Italia 3 a 2, dopo i tiri dal dischetto.

De Gregori aveva già cantato che ‘non è da un calcio di rigore che si giudica un giocatore’, anche se in quel momento era difficile pensare che fosse vero.

Sempre Raboni dedica una lode al ‘Divin codino’: talento, eleganza sul campo e nella vita privata, genialità nel gioco sono associati per sempre ad un errore davanti a milioni di telespettatori, alimentando il mito di campione triste, ma aumentandone paradossalmente la popolarità. Ogni pregiudizio sul calcio viene messo a tacere di fronte alla leggerezza con cui Baggio si muove e sposta il pallone da un piede all’altro, alla disinvoltura che porta a credere che ciò che sta facendo sia semplice

Come spesso sembra anche quando leggiamo i versi ‘facili’ di una poesia:

‘Ah suonatori di piffero, / di tamburello, di viola / state un po’ zitti se vola
con penne o piume di zeffiro / nella stravagante spola / da un piede all’altro, nel vivido / organizzarsi del brivido / fra la tomaia e la suola / sezionando come un raggio
(sì, laser più che persona) / l’area non più di rigore / a distrarci dall’orrore
che senza colpa impersona / l’imponderabile Baggio
‘.

Il calcio, la poesia, due grandi campioni indiscussi insegnano a metabolizzare le frustrazioni, a ridimensionare le ambizioni di gloria; possono spiegare a tanti ragazzini, e ai loro padri invasati che insultano gli arbitri, che si lotta fino a quando è concesso, ma ci si può scontrare con un avversario più forte, con l’inesorabilità di 90 minuti contrapposta al tempo soggettivo delle nostre speranze.

Meglio ascoltare un altro pezzo della storia di De Gregori: ‘Nino mise il cuore dentro le scarpe e corse più veloce del vento’.

[Immagine: Gli Azzurri con la Coppa del Mondo 1982]

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