Tardano gli alberi a tingersi di rosso, arancio e giallo, stretti nel caldo abbraccio dell’anticiclone africano Apollo.
In questa ottobrata italiana la natura mette in scena uno spettacolo che colora quasi tutta l’erba sempre di verde; solo qualche chiazza di bruno, e le foglie ancora non sono diventate ovunque il tappeto soffice, scivoloso o riarso delle nostre passeggiate nei parchi.
Anche i rumori e gli umori sono quelli squillanti di un’estate tenace e “i lunghi singulti dei violini d’autunno” di Paul Verlaine ancora non “mordono il cuore con monotono languore”.
Se siamo in attesa impaziente del cambio di stagione, rifugiamoci nei versi di Emily Dickinson, che mette in relazione il desiderio di rivedere la persona amata con l’atmosfera d’autunno: “Se tu venissi in autunno, / io scaccerei l’estate, / un po’ con un sorriso ed un po’ con dispetto, / come scaccia una mosca la massaia. / Se fra un anno potessi rivederti, / farei dei mesi altrettanti gomitoli, / da riporre in cassetti separati, / per timore che i numeri si fondano. […] Ora ignoro l’ampiezza / del tempo che intercorre a separarci, / e mi tortura come un’ape fantasma / che non vuole mostrare il pungiglione”.
E’ sempre la poetessa statunitense a richiamare l’attenzione sui colori vivaci che indossa la natura: “Sono più miti le mattine, / e più scure diventano le noci, / le bacche hanno un viso più rotondo, / la rosa non è più nella città./ L’acero indossa una sciarpa più gaia, / e la campagna una gonna scarlatta. / Ed anch’io, per non essere antiquata, / mi metterò un gioiello”.
La mia amata Antonia Pozzi trasforma l’autunno nella metafora di una vita effimera, con una sensibilità che scongiura la retorica: “Alle soglie d’autunno / in un tramonto / muto / scopri l’onda del tempo / e la tua resa / segreta / come di ramo in ramo / leggero / un cadere d’uccelli / cui le ali non reggono più”.
Se poi a noi e alla terra manca la pioggia fresca, quella che ristora e non travolge, Ada Negri la invoca per spegnere la nostra sete e restituirci il piacevole suono del suo scrosciare:
“Vorrei, pioggia d’autunno, essere foglia / che s’imbeve di te sin nelle fibre / che l’uniscono al ramo, e il ramo al tronco, / e il tronco al suolo; e tu dentro le vene / passi, e ti spandi, e sì gran sete plachi. / So che annunci l’inverno: che fra breve / quella foglia cadrà, fatta colore / della ruggine, e al fango andrà commista, / ma le radici nutrirà del tronco / per rispuntar dai rami a primavera. / Vorrei, pioggia d’autunno, esser foglia,/ abbandonarmi al tuo scrosciare, certa / che non morrò, che non morrò, che solo / muterò volto sin che avrà la terra / le sue stagioni, e un albero avrà fronde”.
Includo un’unica voce maschile, per un doveroso omaggio ad Alessandro Manzoni nell’anno in cui cade il 150° anniversario della sua morte.
Fra Cristoforo esce dal convento di Pescarenico per recarsi a casa di Lucia e lo stato d’animo è inquieto e preoccupato; il suo sguardo coglie nel paesaggio i segni di un malessere e di una crisi che accrescono ad ogni passo la sua tristezza: mendicanti lungo la strada, una giovane che pascola una vacca magrissima, contadini che spargono semi con parsimonia.
I segnali della terribile carestia stridono, in quella mattina di Novembre del 1628, con quanto di più luminoso l’autunno ci possa regalare:
“Il cielo era tutto sereno: di mano in mano che il sole s’alzava dietro il monte, si vedeva la sua luce, dalle sommità de’ monti opposti, scendere, come spiegandosi rapidamente, giù per i pendìi, e nella valle. Un venticello d’autunno, staccando da’ rami le foglie appassite del gelso, le portava a cadere, qualche passo distante dall’albero. A destra e a sinistra, nelle vigne, sui tralci ancor tesi, brillavan le foglie rosseggianti a varie tinte; e la terra lavorata di fresco, spiccava bruna e distinta ne’ campi di stoppie biancastre e luccicanti dalla guazza”.
Che dire? Proviamo a godere di queste albe serene che ci vengono dispensate e a ritardare, o ad accantonare, i turbamenti malinconici del nostro tempo.