Alda Merini ha scelto ‘una piccola ape furibonda’ come metafora della sua esistenza in merito alla vita, alla morte e all’amore, ma intellettuali e artisti fin dall’antichità hanno immortalato questi insetti nella loro laboriosità, nella loro ordinata ed efficiente struttura, nella grande considerazione ricevuta per la produzione del miele.

Se in questi giorni appena trascorsi la bellezza del creato ci ha incantati con il grandioso scenario dell’aurora boreale, visibile anche nel nostro cielo, la natura sa sorprenderci anche quando la meraviglia la cogliamo in piccole manifestazioni, come nel ronzio delle api.

In loro difesa Einstein diceva che “se l’ape scomparisse dalla Terra, all’umanità resterebbero quattro anni di vita”.

Sono infatti creature piccolissime che fanno azioni grandiose, perché da loro dipende un ecosistema costituito di piante, fiori selvatici e raccolti alimentari: il futuro degli impollinatori è però a rischio, perché gli spazi naturali cementificati e le coltivazioni intensive diventano per loro trappole mortali.

Maria Ivana Trevisani Bach, la principale esponente in Italia della Ecopoesia, immagina una primavera in cui nei campi, nei parchi e sui balconi fioriti non si sente il familiare ronzio delle api; un’anomalia strana e allarmante: se nel perfetto equilibrio dell’ecosistema le poche ore di vita dei fiori sono sufficienti a permettere l’impollinazione, nell’assenza degli insetti il ciclo vitale si spezza e i fiori non producono frutti.

“Sul ramo del pero / una nuvola bianca di fiori. / Fugace incanto / che dura / dal mattino alla sera. / Muta è, però, / questa strana Primavera; / senza brusii e senza api ronzanti. / Come neve leggera, / cadono i bianchi fiocchi dei fiori / inutili e / sterili / sul grigio cemento”.

Eppure da sempre c’è stata la consapevolezza che l’ape fosse un’entità qualitativamente superiore a quella umana, poiché dotata di una perfezione che preserva la natura e non la distrugge.

E’ noto che Crono, nella sua spietata crudeltà, non esitava a divorare i suoi figli e per questo la moglie Rea, per salvare e sfamare Zeus, lo affidò alla capra Amaltea, che gli diede il suo latte, e alla ninfa Melissa che gli procurava il miele per addolcirlo. E Zeus, per premiare la dedizione di Melissa, la trasformò in un’ape sacra agli dei.

Secondo il poeta Semonide la donna che ha l’indole dell’ape ‘è fortunato chi se la prende’; ma tutta la lirica greca ha inteso le api e il miele come tramite tra la vita terrena e l’aldilà.

Aristotele definiva il miele ‘rugiada celeste’ raccolta dai fiori o intercettata nell’aria.

Omero e Dante non sono rimasti immuni al fascino di questi insetti; nell’Iliade le api sono depositarie di virtù eroiche e difendono strenuamente casa e figli dai guerrieri che li attaccano: “come api maculose in erti / nidi nascoste, a chi dà lor la caccia / s’avventano feroci, e per le cave / case e pe’ figli battagliar le vedi”.

Il padre della lingua italiana, nel XXI canto del Paradiso racconta il tripudio degli angeli nella Candida Rosa dei beati con una metafora ricca di movimento e di meraviglia: “Sì come schiera d’api che s’infiora / una fiata e una si ritorna / là dove il suo laboro s’insapora”.

A Virgilio, cantore per eccellenza della natura, dobbiamo la descrizione della mirabile società delle api, una sorta di regno in miniatura dove ciascuno ha il suo ruolo riservato a cui non si può sottrarre.

“Sole hanno figli comuni e case unite in città, sole trascorrono la loro vita sotto le grandi leggi, sole riconoscono una patria e Penati certi, e, pensando all’inverno che viene, faticano nell’estate, e mettono in comune il frutto del loro lavoro. Alcune provvedono al vitto e, secondo un accordo, lavorano nei campi, altre dentro le case pongono le fondamenta dei favi e poi sospendono le cere tenaci. Altre conducono fuori i figli cresciuti, speranza del popolo, altre stipano il miele purissimo, altre riempiono le celle di limpido nettare”.

Un’organizzazione così razionale da pensare che abbiano menti divine. Nel sogno augusteo di una società disciplinata la durezza del ‘labor’ si stempera in serena operosità; nello spazio georgico l’uomo trova un modello positivo civilizzato. Le api sono persino immuni da Eros: “Non indulgono all’amplesso, non consumano il loro corpo nell’amore, né partoriscono i figli con sforzo, ma li raccolgono in bocca dalle foglie e dalle erbe soavi – provvedono loro al re e ai piccoli cittadini, consolidano le celle e i regni di cera”.

Sempre in ascolto della natura e dei suoi messaggi arcani, Giovanni Pascoli è distratto dai suoi ‘tetri pensieri’ dal ronzio di un bombo; lo vede cozzare ripetutamente contro il vetro, quasi a voler entrare nella casa per comunicargli qualcosa d’importante, e l’io lirico pone una domanda all’animale come se potesse rispondergli, come se in esso si sia reincarnata qualche anima defunta che voglia riferire delle novità: “Mi desta / quel murmure ai vetri. / Che brontoli, o bombo? / Che nuove mi porti? / E cadono l’ore / giú giù, con un lento

/ gocciare. Nel cuore / lontane risento / parole di morti…”

E accanto ad un sepolcro il poeta invita a “lasciare quell’edera! / Ha i capi fioriti. / Fiorisce, fedele, d’ottobre, / e vi vengono l’api / per l’ultimo miele”.

Cosa ci può insegnare oggi l’operosa dignità delle api?

Buddha ci suggerisce la cura dell’altro: “Come l’ape raccoglie il succo dei fiori senza danneggiarne colore e profumo, così il saggio dimori nel mondo”.

Il poeta Khalil Gibran ci invita a guardare nel profondo del cuore e a trovare nel piacere la reciprocità: “Andate nei campi e nei vostri giardini, e vedrete che il piacere dell’ape è raccogliere miele dal fiore. Ma è anche piacere del fiore concedere all’ape il suo miele. Perché un fiore per l’ape è la fonte di vita. E un’ape per il fiore è un messaggero d’Amore. E per entrambi, per l’ape e per il fiore, darsi e ricevere piacere è insieme ebbrezza e bisogno”.

Lo spazio della nostra felicità non può restringersi all’interesse individuale, ma aprirsi, come dice Lev Tolstoj, alla dimensione del bene comune: “Capii che un uomo, oltre a vivere per il proprio bene personale, deve inevitabilmente contribuire al bene degli altri: se dobbiamo prendere un paragone dal mondo degli animali, allora occorre prenderlo dal mondo degli animali sociali, come le api”.

Anche se basta poco per vivere appagati e in sintonia con gli altri e con il mondo; ce lo spiega Trilussa: “C’è un’ape che si posa / su un bottone di rosa: / lo succhia e se ne va… / Tutto sommato, la felicità / è una piccola cosa”.

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Io sto con le api

Alda Merini ha scelto ‘una piccola ape furibonda’ come metafora della sua esistenza in merito alla vita, alla morte e all’amore, ma intellettuali e artisti fin dall’antichità hanno immortalato questi insetti nella loro laboriosità, nella loro ordinata ed efficiente struttura, nella grande considerazione ricevuta per la produzione del miele.

Se in questi giorni appena trascorsi la bellezza del creato ci ha incantati con il grandioso scenario dell’aurora boreale, visibile anche nel nostro cielo, la natura sa sorprenderci anche quando la meraviglia la cogliamo in piccole manifestazioni, come nel ronzio delle api.

In loro difesa Einstein diceva che “se l’ape scomparisse dalla Terra, all’umanità resterebbero quattro anni di vita”.

Sono infatti creature piccolissime che fanno azioni grandiose, perché da loro dipende un ecosistema costituito di piante, fiori selvatici e raccolti alimentari: il futuro degli impollinatori è però a rischio, perché gli spazi naturali cementificati e le coltivazioni intensive diventano per loro trappole mortali.

Maria Ivana Trevisani Bach, la principale esponente in Italia della Ecopoesia, immagina una primavera in cui nei campi, nei parchi e sui balconi fioriti non si sente il familiare ronzio delle api; un’anomalia strana e allarmante: se nel perfetto equilibrio dell’ecosistema le poche ore di vita dei fiori sono sufficienti a permettere l’impollinazione, nell’assenza degli insetti il ciclo vitale si spezza e i fiori non producono frutti.

“Sul ramo del pero / una nuvola bianca di fiori. / Fugace incanto / che dura / dal mattino alla sera. / Muta è, però, / questa strana Primavera; / senza brusii e senza api ronzanti. / Come neve leggera, / cadono i bianchi fiocchi dei fiori / inutili e / sterili / sul grigio cemento”.

Eppure da sempre c’è stata la consapevolezza che l’ape fosse un’entità qualitativamente superiore a quella umana, poiché dotata di una perfezione che preserva la natura e non la distrugge.

E’ noto che Crono, nella sua spietata crudeltà, non esitava a divorare i suoi figli e per questo la moglie Rea, per salvare e sfamare Zeus, lo affidò alla capra Amaltea, che gli diede il suo latte, e alla ninfa Melissa che gli procurava il miele per addolcirlo. E Zeus, per premiare la dedizione di Melissa, la trasformò in un’ape sacra agli dei.

Secondo il poeta Semonide la donna che ha l’indole dell’ape ‘è fortunato chi se la prende’; ma tutta la lirica greca ha inteso le api e il miele come tramite tra la vita terrena e l’aldilà.

Aristotele definiva il miele ‘rugiada celeste’ raccolta dai fiori o intercettata nell’aria.

Omero e Dante non sono rimasti immuni al fascino di questi insetti; nell’Iliade le api sono depositarie di virtù eroiche e difendono strenuamente casa e figli dai guerrieri che li attaccano: “come api maculose in erti / nidi nascoste, a chi dà lor la caccia / s’avventano feroci, e per le cave / case e pe’ figli battagliar le vedi”.

Il padre della lingua italiana, nel XXI canto del Paradiso racconta il tripudio degli angeli nella Candida Rosa dei beati con una metafora ricca di movimento e di meraviglia: “Sì come schiera d’api che s’infiora / una fiata e una si ritorna / là dove il suo laboro s’insapora”.

A Virgilio, cantore per eccellenza della natura, dobbiamo la descrizione della mirabile società delle api, una sorta di regno in miniatura dove ciascuno ha il suo ruolo riservato a cui non si può sottrarre.

“Sole hanno figli comuni e case unite in città, sole trascorrono la loro vita sotto le grandi leggi, sole riconoscono una patria e Penati certi, e, pensando all’inverno che viene, faticano nell’estate, e mettono in comune il frutto del loro lavoro. Alcune provvedono al vitto e, secondo un accordo, lavorano nei campi, altre dentro le case pongono le fondamenta dei favi e poi sospendono le cere tenaci. Altre conducono fuori i figli cresciuti, speranza del popolo, altre stipano il miele purissimo, altre riempiono le celle di limpido nettare”.

Un’organizzazione così razionale da pensare che abbiano menti divine. Nel sogno augusteo di una società disciplinata la durezza del ‘labor’ si stempera in serena operosità; nello spazio georgico l’uomo trova un modello positivo civilizzato. Le api sono persino immuni da Eros: “Non indulgono all’amplesso, non consumano il loro corpo nell’amore, né partoriscono i figli con sforzo, ma li raccolgono in bocca dalle foglie e dalle erbe soavi – provvedono loro al re e ai piccoli cittadini, consolidano le celle e i regni di cera”.

Sempre in ascolto della natura e dei suoi messaggi arcani, Giovanni Pascoli è distratto dai suoi ‘tetri pensieri’ dal ronzio di un bombo; lo vede cozzare ripetutamente contro il vetro, quasi a voler entrare nella casa per comunicargli qualcosa d’importante, e l’io lirico pone una domanda all’animale come se potesse rispondergli, come se in esso si sia reincarnata qualche anima defunta che voglia riferire delle novità: “Mi desta / quel murmure ai vetri. / Che brontoli, o bombo? / Che nuove mi porti? / E cadono l’ore / giú giù, con un lento

/ gocciare. Nel cuore / lontane risento / parole di morti…”

E accanto ad un sepolcro il poeta invita a “lasciare quell’edera! / Ha i capi fioriti. / Fiorisce, fedele, d’ottobre, / e vi vengono l’api / per l’ultimo miele”.

Cosa ci può insegnare oggi l’operosa dignità delle api?

Buddha ci suggerisce la cura dell’altro: “Come l’ape raccoglie il succo dei fiori senza danneggiarne colore e profumo, così il saggio dimori nel mondo”.

Il poeta Khalil Gibran ci invita a guardare nel profondo del cuore e a trovare nel piacere la reciprocità: “Andate nei campi e nei vostri giardini, e vedrete che il piacere dell’ape è raccogliere miele dal fiore. Ma è anche piacere del fiore concedere all’ape il suo miele. Perché un fiore per l’ape è la fonte di vita. E un’ape per il fiore è un messaggero d’Amore. E per entrambi, per l’ape e per il fiore, darsi e ricevere piacere è insieme ebbrezza e bisogno”.

Lo spazio della nostra felicità non può restringersi all’interesse individuale, ma aprirsi, come dice Lev Tolstoj, alla dimensione del bene comune: “Capii che un uomo, oltre a vivere per il proprio bene personale, deve inevitabilmente contribuire al bene degli altri: se dobbiamo prendere un paragone dal mondo degli animali, allora occorre prenderlo dal mondo degli animali sociali, come le api”.

Anche se basta poco per vivere appagati e in sintonia con gli altri e con il mondo; ce lo spiega Trilussa: “C’è un’ape che si posa / su un bottone di rosa: / lo succhia e se ne va… / Tutto sommato, la felicità / è una piccola cosa”.

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