Uno dei libri più significativi del Novecento europeo, “Gente sul ponte”, appartiene alla produzione più matura della poetessa polacca Premio Nobel Wislawa Szymborska.

E’ il 1986, la scrittrice ha più di 60 anni: ha già da tempo superato la delusione della censura del suo primo libro di poesie, giudicato non allineato ai dettami ideologici del Partito Operaio Unificato Polacco, quando, nei primi anni del secondo dopoguerra, il suo Paese è uno Stato controllato dall’Unione Sovietica e sono sospese le basilari libertà democratiche di opinione e dissenso; dopo un iniziale allineamento con il regime non per scelta, ma per non soccombere ad una pressione ideologica e poliziesca troppo forte, ha avuto il coraggio di impegnarsi con i gruppi di opposizione per creare una cultura alternativa, capace di mettere in crisi la dittatura socialista, e per riportare nel suo Paese alcune delle libertà fondamentali dell’individuo.

La raccolta poetica ha i toni di un saggio che riflette sulla Storia in generale, un’idea triste della Storia, perché dopo gli orrori del nazismo e l’abominio dei campi di concentramento ci si aspettava che gli uomini avessero sviluppato i necessari anticorpi contro la violenza e la sopraffazione.

Si spiega perciò la continua e ininterrotta vena di amarezza nel tono dei versi che rileggono il Novecento in ‘Scorcio di secolo’:

“Doveva essere migliore degli altri il nostro ventesimo secolo. / Non farà più in tempo a dimostrarlo, / ha gli anni contati, / il passo malfermo, / il fiato corto.

Sono ormai successe troppe cose / che non dovevano succedere, / e quel che doveva arrivare / non è arrivato. / Ci si doveva avviare verso la primavera / e la felicità, tra l’altro. /La paura doveva abbandonare i monti e le valli. / La verità doveva raggiungere la meta / prima della menzogna. / Alcune sciagure / non dovevano più accadere, / ad esempio la guerra / e la fame, e così via. / Doveva essere rispettata / l’inermità degli inermi, / la fiducia e via dicendo. / Chi voleva gioire del mondo / si trova di fronte a un’impresa / impossibile. / La stupidità non è ridicola. / La saggezza non è allegra. / La speranza non è più quella giovane ragazza / et cetera, purtroppo. / Dio doveva finalmente credere nell’uomo / buono e forte, / ma il buono e il forte / restano due esseri distinti. / Come vivere? – mi ha scritto qualcuno / a cui io intendevo fare / la stessa domanda. / Da capo, e allo stesso modo di sempre, / come si è visto sopra, / non ci sono domande più pressanti / delle domande ingenue”.

Il Novecento avrebbe dovuto essere ricordato solo come il secolo del benessere, il momento più alto ed elevato della Storia: Szymborska, proprio nel momento di massima euforia collettiva alla fine degli anni ‘80, ne propone un’altra lettura, esprimendo il rammarico per ciò che non è stato.

Non sfugge, al di là del tono colloquiale, la profondità delle riflessioni, né la drammaticità delle immagini, solo attenuata dall’uso di parole semplici, ma non per questo la condanna della violenza è meno incisiva e radicale.

E anche il mondo contemporaneo vede trionfare la stupidità, talmente diffusa da sembrare normale.

Tra tutte le promesse non mantenute quella della pace è la più grave.

“Dopo ogni guerra / c’è chi deve ripulire. / In fondo un po’ d’ordine / da solo non si fa.

C’è chi deve spingere le macerie / ai bordi delle strade / per far passare / i carri pieni di cadaveri. / C’è chi deve sprofondare / nella melma e nella cenere, /tra le molle dei divani letto,
le schegge di vetro / e gli stracci insanguinati.

C’è chi deve trascinare una trave / per puntellare il muro, / c’è chi deve mettere i vetri alla finestra / e montare la porta sui cardini. / Non è fotogenico / e ci vogliono anni. / Tutte le telecamere sono già partite / per un’altra guerra.

Bisogna ricostruire i ponti / e anche le stazioni. / Le maniche saranno a brandelli / a forza di rimboccarle. / C’è chi con la scopa in mano / ricorda ancora com’era. / C’è chi ascolta
annuendo con la testa non mozzata. / Ma presto / gli gireranno intorno altri / che ne saranno annoiati.

C’è chi talvolta / dissotterrerà da sotto un cespuglio / argomenti corrosi dalla ruggine / e li trasporterà sul mucchio dei rifiuti. / Chi sapeva / di che si trattava, / deve far posto a quelli / che ne sanno poco. / E meno di poco. / E infine assolutamente nulla. / Sull’erba che ha ricoperto / le cause e gli effetti, / c’è chi deve starsene disteso / con la spiga tra i denti, / perso a fissare le nuvole”.

Questi versi sono del 1993, in ‘La fine e l’inizio’: il bilancio porta ancora amarezza e e altro sconforto.

E’ triste constatare, a 20 anni di distanza dalla composizione del testo, il loro tono profetico.

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Claudia Cominoli

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La pace negata

Uno dei libri più significativi del Novecento europeo, “Gente sul ponte”, appartiene alla produzione più matura della poetessa polacca Premio Nobel Wislawa Szymborska.

E’ il 1986, la scrittrice ha più di 60 anni: ha già da tempo superato la delusione della censura del suo primo libro di poesie, giudicato non allineato ai dettami ideologici del Partito Operaio Unificato Polacco, quando, nei primi anni del secondo dopoguerra, il suo Paese è uno Stato controllato dall’Unione Sovietica e sono sospese le basilari libertà democratiche di opinione e dissenso; dopo un iniziale allineamento con il regime non per scelta, ma per non soccombere ad una pressione ideologica e poliziesca troppo forte, ha avuto il coraggio di impegnarsi con i gruppi di opposizione per creare una cultura alternativa, capace di mettere in crisi la dittatura socialista, e per riportare nel suo Paese alcune delle libertà fondamentali dell’individuo.

La raccolta poetica ha i toni di un saggio che riflette sulla Storia in generale, un’idea triste della Storia, perché dopo gli orrori del nazismo e l’abominio dei campi di concentramento ci si aspettava che gli uomini avessero sviluppato i necessari anticorpi contro la violenza e la sopraffazione.

Si spiega perciò la continua e ininterrotta vena di amarezza nel tono dei versi che rileggono il Novecento in ‘Scorcio di secolo’:

“Doveva essere migliore degli altri il nostro ventesimo secolo. / Non farà più in tempo a dimostrarlo, / ha gli anni contati, / il passo malfermo, / il fiato corto.

Sono ormai successe troppe cose / che non dovevano succedere, / e quel che doveva arrivare / non è arrivato. / Ci si doveva avviare verso la primavera / e la felicità, tra l’altro. /La paura doveva abbandonare i monti e le valli. / La verità doveva raggiungere la meta / prima della menzogna. / Alcune sciagure / non dovevano più accadere, / ad esempio la guerra / e la fame, e così via. / Doveva essere rispettata / l’inermità degli inermi, / la fiducia e via dicendo. / Chi voleva gioire del mondo / si trova di fronte a un’impresa / impossibile. / La stupidità non è ridicola. / La saggezza non è allegra. / La speranza non è più quella giovane ragazza / et cetera, purtroppo. / Dio doveva finalmente credere nell’uomo / buono e forte, / ma il buono e il forte / restano due esseri distinti. / Come vivere? – mi ha scritto qualcuno / a cui io intendevo fare / la stessa domanda. / Da capo, e allo stesso modo di sempre, / come si è visto sopra, / non ci sono domande più pressanti / delle domande ingenue”.

Il Novecento avrebbe dovuto essere ricordato solo come il secolo del benessere, il momento più alto ed elevato della Storia: Szymborska, proprio nel momento di massima euforia collettiva alla fine degli anni ‘80, ne propone un’altra lettura, esprimendo il rammarico per ciò che non è stato.

Non sfugge, al di là del tono colloquiale, la profondità delle riflessioni, né la drammaticità delle immagini, solo attenuata dall’uso di parole semplici, ma non per questo la condanna della violenza è meno incisiva e radicale.

E anche il mondo contemporaneo vede trionfare la stupidità, talmente diffusa da sembrare normale.

Tra tutte le promesse non mantenute quella della pace è la più grave.

“Dopo ogni guerra / c’è chi deve ripulire. / In fondo un po’ d’ordine / da solo non si fa.

C’è chi deve spingere le macerie / ai bordi delle strade / per far passare / i carri pieni di cadaveri. / C’è chi deve sprofondare / nella melma e nella cenere, /tra le molle dei divani letto,
le schegge di vetro / e gli stracci insanguinati.

C’è chi deve trascinare una trave / per puntellare il muro, / c’è chi deve mettere i vetri alla finestra / e montare la porta sui cardini. / Non è fotogenico / e ci vogliono anni. / Tutte le telecamere sono già partite / per un’altra guerra.

Bisogna ricostruire i ponti / e anche le stazioni. / Le maniche saranno a brandelli / a forza di rimboccarle. / C’è chi con la scopa in mano / ricorda ancora com’era. / C’è chi ascolta
annuendo con la testa non mozzata. / Ma presto / gli gireranno intorno altri / che ne saranno annoiati.

C’è chi talvolta / dissotterrerà da sotto un cespuglio / argomenti corrosi dalla ruggine / e li trasporterà sul mucchio dei rifiuti. / Chi sapeva / di che si trattava, / deve far posto a quelli / che ne sanno poco. / E meno di poco. / E infine assolutamente nulla. / Sull’erba che ha ricoperto / le cause e gli effetti, / c’è chi deve starsene disteso / con la spiga tra i denti, / perso a fissare le nuvole”.

Questi versi sono del 1993, in ‘La fine e l’inizio’: il bilancio porta ancora amarezza e e altro sconforto.

E’ triste constatare, a 20 anni di distanza dalla composizione del testo, il loro tono profetico.

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