Leonardo da Vinci scriveva che “l’acqua disfa li monti e riempie le valli e vorrebbe la Terra in perfetta sfericità, s’ella potesse”. Con la sua visione chiara e competente dei processi naturali e delle dinamiche geomorfologiche, sapeva che le montagne prima o poi vengono erose e crollano, le valli sedimentate, i fiumi esondano e divagano, hanno estremo bisogno di cambiare.

Eppure il cammino della civiltà è stato segnato dalla necessità da parte dell’uomo di costruire opere mirate al controllo delle acque: pozzi, canali di drenaggio, dighe e acquedotti.

Prima, per milioni di anni l’uomo è stato dipendente dalla disponibilità d’acqua, a volte insufficiente e a volte eccessiva, senza riuscire a controllarla e sviluppando un senso di impotenza di fronte alla sua forza distruttiva; incapace di spiegarla, nei miti fondativi delle più antiche culture attribuisce alla divinità la decisione di annientare il genere umano, corrotto e arrogante, rovesciando un diluvio da tutto il cielo.

Ovidio ce lo racconta nelle ‘Metamorfosi’: “Ma Giove, nella sua ira, non si accontenta dei mezzi del cielo. Nettuno, il suo azzurro fratello, gli presta man forte con altra acqua. Questi convoca i fiumi, e ordina: -Aprite le vostre dimore e lanciate le vostre correnti a briglia sciolta!- E quelli spalancano le bocche delle sorgenti e si precipitano a corsa sfrenata verso il mare. Traboccando, i fiumi si gettano nell’aperta campagna e travolgono sementi e piante, e greggi, e uomini e abitazioni, e portano via cappelle e sacri arredi.

Anche se qualche casa rimane e riesce a reggere a tanta furia senza crollare, le acque la superano e sommergono il tetto, e le torri non si vedono più, premute sotto i gorghi.

E ormai non c’è più differenza tra mare e terra ferma. Tutto è ormai mare, un mare senza sponde”.

Non esiste intervento umano che possa davvero bloccare la natura, anzi, le opere che modificano la dinamica fluviale rischiano di elevare il danno. E’ il caso del Po, che nel corso dei secoli è stato progressivamente delimitato da un crescente numero di arginature, che oggi lo costringono senza soluzione di continuità fino al mare: i livelli di piena sono cresciuti, si sono rialzati gli argini, aumentando così il rischio di evento alluvionale, perché i sedimenti non trovano più il naturale sfogo in periodiche esondazioni.

Il fiume che fa paura ce lo ricorda Roberto Roversi in occasione della piena in Polesine del 1951: “I campi sfiorire dentro il mare, / le onde strappare i rami dei cedui, / case crollare, i visi intorno ai tronchi / infuriati di schiuma. / Le donne ad amare le case / perse nei gorghi, poca roba raccolta ad asciugare, / perduta la pace guadagnata, / tutto da incominciare”.

Un lessico semplice e comune non impedisce un effetto epico sia nella visione della catastrofe sia nelle figure di uomini e donne, colpiti ma non domati. Un’eco biblica accompagna più che lo scatenarsi degli eventi la calma mortale del dopo: “Tutto intorno è mare. / Se parlo, guardando l’acqua decrescere / sotto un cielo di ferro, / compatite il mio povero italiano, / la voce che sa di pane e sale / e dice male parole troppo vere. / Finito il diluvio per il piano / restano soli nelle piazze / e le pompe travolgono / dal lago di melma foglie morte, / sterpi, rami, biade marce, piume”.

I fiumi che fanno paura li osserviamo in questa primavera piovosa, che ci sta regalando più del doppio di precipitazioni rispetto alla media.

Tra uomini e fiumi il rapporto è sempre stato simbiotico e difficile, davvero conflittuale, ma è anche stato una bussola economica e sociale, ha disegnato luoghi, ha definito storia, cultura e mentalità.

E così un’alluvione può anche diventare allegoria del degrado della civiltà.

Nei versi di Montale il disastro materiale dell’alluvione dell’Arno a Firenze nel 1966 si carica di un significato diverso: è il trionfo della società di massa che annulla le differenze e ignora i valori, mescola tutto nella stessa melma: “L’alluvione ha sommerso il pack dei mobili, / delle carte, dei quadri che stipavano / un sotterraneo chiuso a doppio lucchetto. / Forse hanno ciecamente lottato i marocchini rossi, le sterminate / dediche di Du Bos, il timbro a ceralacca con la faccia di Ezra, / il Valèry di Alain, l’originale / dei Canti Orfici – e poi qualche pennello / da barba, mille cianfrusaglie e tutte le musiche di tuo fratello Silvio. / Dieci, dodici giorni sotto un’atroce morsura / di nafta e sterco. Certo hanno sofferto / tanto prima di perdere la loro identità. / Anch’io sono incrostato fino al collo”.

Il fiume ha trascinato nel fango oggetti personali ed emblemi della grande cultura umanistica del Novecento, sparpagliati e incrostati, e mai più sostituiti.

La vulnerabilità dei nostri territori è tale anche a prescindere dall’aggravio dei fenomeni estremi indotti dal cambiamento climatico. Se ‘diluvio’ può sembrare una parola lontanissima da noi e far riferimento ad avvenimenti forse mai accaduti, e certamente non è l’ira divina a scatenarsi su di noi anche a fronte di evidenti responsabilità, il mito ci può insegnare ancora qualcosa: se nel diluvio biblico i flutti sommergono con furia violenta la terra, l’acqua che piove dal cielo conduce alla rinascita del mondo e di un nuova umanità.

“Noè attese altri sette giorni e di nuovo fece uscire la colomba dall’arca e la colomba tornò a lui sul far della sera; ecco, essa aveva nel becco un ramoscello di ulivo. Noè comprese che le acque si erano ritirate dalla terra. Aspettò altri sette giorni, poi lasciò andare la colomba; essa non tornò più da lui”.

La paura dei corsi d’acqua deve diventare utile. Gli esperti ci dicono che è insensato artificializzare ulteriormente le acque: non servono argini, dobbiamo dare spazio ai fiumi.

Alla gente dell’Emilia – Romagna, nell’anniversario dell’alluvione che ha distrutto la sua terra e il suo lavoro, agli angeli del fango, ai vigili del fuoco, agli uomini e alle donne della protezione civile dedico ancora una sequenza di Roberto Roversi, in omaggio alla loro forza e alla loro resistenza: “Argini sbilenchi, desolati, / vuoti di vita, macerati, spinti / dalla forza dell’acqua a contrastare / in gemiti continui, spaventosamente / umani la corrente […] Ma dentro la pianura / la terra è più ricca, esuberante, / se affondi la mano si dichiara / il suo mistero nella perla rara / che sfiora le tue dita; / nessun inverno o fiume fa paura”.

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La paura dell’acqua

Leonardo da Vinci scriveva che “l’acqua disfa li monti e riempie le valli e vorrebbe la Terra in perfetta sfericità, s’ella potesse”. Con la sua visione chiara e competente dei processi naturali e delle dinamiche geomorfologiche, sapeva che le montagne prima o poi vengono erose e crollano, le valli sedimentate, i fiumi esondano e divagano, hanno estremo bisogno di cambiare.

Eppure il cammino della civiltà è stato segnato dalla necessità da parte dell’uomo di costruire opere mirate al controllo delle acque: pozzi, canali di drenaggio, dighe e acquedotti.

Prima, per milioni di anni l’uomo è stato dipendente dalla disponibilità d’acqua, a volte insufficiente e a volte eccessiva, senza riuscire a controllarla e sviluppando un senso di impotenza di fronte alla sua forza distruttiva; incapace di spiegarla, nei miti fondativi delle più antiche culture attribuisce alla divinità la decisione di annientare il genere umano, corrotto e arrogante, rovesciando un diluvio da tutto il cielo.

Ovidio ce lo racconta nelle ‘Metamorfosi’: “Ma Giove, nella sua ira, non si accontenta dei mezzi del cielo. Nettuno, il suo azzurro fratello, gli presta man forte con altra acqua. Questi convoca i fiumi, e ordina: -Aprite le vostre dimore e lanciate le vostre correnti a briglia sciolta!- E quelli spalancano le bocche delle sorgenti e si precipitano a corsa sfrenata verso il mare. Traboccando, i fiumi si gettano nell’aperta campagna e travolgono sementi e piante, e greggi, e uomini e abitazioni, e portano via cappelle e sacri arredi.

Anche se qualche casa rimane e riesce a reggere a tanta furia senza crollare, le acque la superano e sommergono il tetto, e le torri non si vedono più, premute sotto i gorghi.

E ormai non c’è più differenza tra mare e terra ferma. Tutto è ormai mare, un mare senza sponde”.

Non esiste intervento umano che possa davvero bloccare la natura, anzi, le opere che modificano la dinamica fluviale rischiano di elevare il danno. E’ il caso del Po, che nel corso dei secoli è stato progressivamente delimitato da un crescente numero di arginature, che oggi lo costringono senza soluzione di continuità fino al mare: i livelli di piena sono cresciuti, si sono rialzati gli argini, aumentando così il rischio di evento alluvionale, perché i sedimenti non trovano più il naturale sfogo in periodiche esondazioni.

Il fiume che fa paura ce lo ricorda Roberto Roversi in occasione della piena in Polesine del 1951: “I campi sfiorire dentro il mare, / le onde strappare i rami dei cedui, / case crollare, i visi intorno ai tronchi / infuriati di schiuma. / Le donne ad amare le case / perse nei gorghi, poca roba raccolta ad asciugare, / perduta la pace guadagnata, / tutto da incominciare”.

Un lessico semplice e comune non impedisce un effetto epico sia nella visione della catastrofe sia nelle figure di uomini e donne, colpiti ma non domati. Un’eco biblica accompagna più che lo scatenarsi degli eventi la calma mortale del dopo: “Tutto intorno è mare. / Se parlo, guardando l’acqua decrescere / sotto un cielo di ferro, / compatite il mio povero italiano, / la voce che sa di pane e sale / e dice male parole troppo vere. / Finito il diluvio per il piano / restano soli nelle piazze / e le pompe travolgono / dal lago di melma foglie morte, / sterpi, rami, biade marce, piume”.

I fiumi che fanno paura li osserviamo in questa primavera piovosa, che ci sta regalando più del doppio di precipitazioni rispetto alla media.

Tra uomini e fiumi il rapporto è sempre stato simbiotico e difficile, davvero conflittuale, ma è anche stato una bussola economica e sociale, ha disegnato luoghi, ha definito storia, cultura e mentalità.

E così un’alluvione può anche diventare allegoria del degrado della civiltà.

Nei versi di Montale il disastro materiale dell’alluvione dell’Arno a Firenze nel 1966 si carica di un significato diverso: è il trionfo della società di massa che annulla le differenze e ignora i valori, mescola tutto nella stessa melma: “L’alluvione ha sommerso il pack dei mobili, / delle carte, dei quadri che stipavano / un sotterraneo chiuso a doppio lucchetto. / Forse hanno ciecamente lottato i marocchini rossi, le sterminate / dediche di Du Bos, il timbro a ceralacca con la faccia di Ezra, / il Valèry di Alain, l’originale / dei Canti Orfici – e poi qualche pennello / da barba, mille cianfrusaglie e tutte le musiche di tuo fratello Silvio. / Dieci, dodici giorni sotto un’atroce morsura / di nafta e sterco. Certo hanno sofferto / tanto prima di perdere la loro identità. / Anch’io sono incrostato fino al collo”.

Il fiume ha trascinato nel fango oggetti personali ed emblemi della grande cultura umanistica del Novecento, sparpagliati e incrostati, e mai più sostituiti.

La vulnerabilità dei nostri territori è tale anche a prescindere dall’aggravio dei fenomeni estremi indotti dal cambiamento climatico. Se ‘diluvio’ può sembrare una parola lontanissima da noi e far riferimento ad avvenimenti forse mai accaduti, e certamente non è l’ira divina a scatenarsi su di noi anche a fronte di evidenti responsabilità, il mito ci può insegnare ancora qualcosa: se nel diluvio biblico i flutti sommergono con furia violenta la terra, l’acqua che piove dal cielo conduce alla rinascita del mondo e di un nuova umanità.

“Noè attese altri sette giorni e di nuovo fece uscire la colomba dall’arca e la colomba tornò a lui sul far della sera; ecco, essa aveva nel becco un ramoscello di ulivo. Noè comprese che le acque si erano ritirate dalla terra. Aspettò altri sette giorni, poi lasciò andare la colomba; essa non tornò più da lui”.

La paura dei corsi d’acqua deve diventare utile. Gli esperti ci dicono che è insensato artificializzare ulteriormente le acque: non servono argini, dobbiamo dare spazio ai fiumi.

Alla gente dell’Emilia – Romagna, nell’anniversario dell’alluvione che ha distrutto la sua terra e il suo lavoro, agli angeli del fango, ai vigili del fuoco, agli uomini e alle donne della protezione civile dedico ancora una sequenza di Roberto Roversi, in omaggio alla loro forza e alla loro resistenza: “Argini sbilenchi, desolati, / vuoti di vita, macerati, spinti / dalla forza dell’acqua a contrastare / in gemiti continui, spaventosamente / umani la corrente […] Ma dentro la pianura / la terra è più ricca, esuberante, / se affondi la mano si dichiara / il suo mistero nella perla rara / che sfiora le tue dita; / nessun inverno o fiume fa paura”.

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