Adesso anche noi sappiamo cos’è una pandemia; sappiamo che non ‘andrà tutto bene’ quando devastazione fisica e disastro morale generano confusione, disuguaglianza, diffidenza e speculazione.
Non occorre riandare con la memoria alla peste del 1629 per capire che negli stadi iniziali di un contagio serpeggiano un generale trionfo dell’irrazionalità e una diffusa propensione a mettere in discussione l’evidenza, poi anche il dubbio del complotto. Questa volta senza più la scusa dell’ignoranza e della superstizione, qualcuno si è anche spinto a cercare l’untore di turno o a temere il castigo di Dio.
E’ una tendenza tipica di tutti gli uomini di tutti i tempi rifiutare fatti negativi, chiudere gli occhi di fronte ad una dura realtà che ha un impatto destabilizzante e mette a rischio la tenuta sociale.
A distanza di tempo, la lezione di Manzoni è ancora valida: negare la realtà attraverso la menzogna, la reticenza e la dissimulazione è una colpa gravissima; l’estrema rarità della parola vera genera confusione e nega la giustizia; chiama in causa la responsabilità umana.
La rimozione dell’idea del contagio avviene tramite un processo di falsificazione di significanti e sostituzione di significati. I primi segni che compaiono sono senza codice: “Per tutta la striscia del territorio s’era trovato qualche cadavere; poco dopo cominciarono ad ammalarsi e a morire persone di mali violenti, strani, con segni sconosciuti alla più parte dei viventi”.
Nonostante i testimoni dell’epidemia del 1576, tra cui il protofisico Lodovico Settala, siano in gran sospetto e riconoscano i segni, ‘non fu per questo presa veruna risoluzione’.
Quando le notizie si fanno allarmanti, si dà credito ad un codice diverso e menzognero: due commissari inviati dal Tribunale della Sanità “si lasciarono persuadere da un vecchio e ignorante barbiere di Bellano che quella sorte di mali non era peste, ma effetto consueto dell’emanazioni autunnali delle paludi, effetto dei disagi e degli strapazzi sofferti nel passaggio degli alemanni. Il Tribunale se ne mise il cuore in pace”.
Nonostante il biasimo per le istituzioni politiche e sanitarie, Manzoni si meraviglia per la condotta della popolazione, “ di quella che, non tocca ancora dal contagio, aveva tanta ragione di temerlo. All’arrrivo di notizie mediche così gravi, chi non crederebbe che vi si suscitasse un movimento generale, un desiderio di precauzioni, almeno una sterile inquietudine? Eppure la penuria dell’anno, le angherie della soldatesca e le afflizioni d’animo parvero più che bastanti a render ragione della mortalità: sulle pubbliche piazze, nelle botteghe, nelle case, chi buttasse là una parola del pericolo, chi motivasse peste, veniva accolto con beffe incredule, con disprezzo iracondo”.
Un segno inequivocabile del contagio, un bubbone sotto l’ascella di quello che allora fu individuato come ‘paziente zero’, la sua morte e quella di chi lo aveva curato fanno prendere misure drastiche di restrizione: ma il contagio è ormai diffuso, anche “per l’imperfezione degli editti, per la trascuranza nell’eseguirli e per la destrezza nell’eluderli […]. Il terrore della contumacia e del lazzaretto aguzzavan tutti gli ingegni: non si denunziavan gli ammalati, si corrompevano i becchini; da subalterni del tribunale, deputati a visitare i cadaveri, si ebbero con danari falsi attestati”.
Il passo cruciale e definitivo della rimozione della realtà è quando si arriva a negarla con nomi diversi: il significante visivo e naturale (i segni naturali della malattia) viene occultato da un significante verbale che ne impedisce il riconoscimento:
“Quando cominciarono a farsi frequenti le malattie, le morti, con accidenti strani di spasimi, di palpitazioni, di letargo, di delirio, con quelle insegne funeste di lividi e di bubboni; morti per lo più celeri, violente, non di rado repentine, senza alcun indizio antecedente di malattia; i medici opposti alla opinion del contagio, non volendo ora confessare ciò che avevan deriso, e dovendo pur dare un nome generico alla nuova malattia, divenuta troppo comune e troppo palese per andarne senza, trovarono quello di febbri maligne, di febbri pestilenti: miserabile transazione, anzi trufferia di parole, e che pur faceva gran danno; perchè, figurando di riconoscere la verità, riusciva ancora a non lasciar credere ciò che più importava di credere, di vedere, che il male s’attaccava per mezzo del contatto”.
Sul piano intellettuale, si compie così un ulteriore passo per continuare in qualche modo a negare la realtà: la peste è ormai assodata, ma si dice che la sua diffusione è dovuta non a mezzi naturali ma a qualche altra causa:
“In principio dunque, non peste, assolutamente no, per nessun conto: proibito anche di proferire il vocabolo. Poi, febbri pestilenziali: l’idea s’ammette per isbieco in un aggettivo. Poi, non vera peste, vale a dire peste sì, ma in un certo senso; non peste proprio, ma una cosa alla quale non si sa trovare un altro nome. Finalmente, peste senza dubbio, e senza contrasto: ma già ci s’è attaccata un’altra idea, l’idea del venefizio e del malefizio, la quale altera e confonde l’idea espressa dalla parola che non si può più mandare indietro”.
La peste è dunque evidente, si incomincia ad interpretare correttamente i sintomi, ma i maneggi della falsa coscienza si riproducono su un altro piano: non potendo occultare il male, si cerca di occultare le ragioni del contagio. Inizia la follia degli untori.
Ma questa è un’altra storia, è la storia di una psicosi collettiva e di una iniquità processuale.
Il racconto della peste manzoniana invece, diventa per alcuni autori del ‘900 emblema di un male che si insinua nelle pieghe della società civile, sovente senza essere subito conosciuto: sintomo di guasto morale, di un morbo che diventa normalità, sviluppa indifferenza e cinismo.
Nel 1989, le prime pagine del racconto – inchiesta ‘Un eroe borghese’ di Corrado Stajano sono dedicate alla Milano degli anni ‘80, una Milano corrotta a colpi di tangente, con una classe politica impazzita, nella quale muore Giorgio Ambrosoli, chiamato a liquidare il Banco Ambrosiano dopo le vicende di Calvi.
“Le facciate sono state dipinte a nuovo, i tetti sono stati rifatti, gli ottoni sono stati lucidati, la città è un gran cantiere ingombro di gru, di scale, di ponteggi. Gli stilisti hanno comprato antichi palazzi, le case di ringhiera sono diventate show-room, le aree di fabbriche dai nomi famosi sono state abbandonate, terra desolata, in attesa di diventare negozi, uffici, supermercati, loft. E’ stato ristrutturato il corpo di una città, di un intero paese, anzi. La grande trasformazione periodica. Ma, se nell’apparenza tutto è mutato, nulla, sotto, è stato sanato e succede così che tra i luccichii delle feste si possano intravedere «per tutto cenci e, più ributtanti de’ cenci, fasce marciose, strame ammorbato, o lenzoli buttati dalle finestre; talvolta corpi, o di persone morte all’improvviso, nella strada, e lasciati lì fin che passasse un carro da portarli via, o cascati da’ carri medesimi, o buttati anch’essi dalle finestre: tanto l’insistere e l’imperversar del disastro aveva insalvatichito gli animi, e fatto dimenticare ogni cura di pietà, ogni riguardo sociale!».
Di nuovo la peste. Di nuovo i monatti e gli untori, questa volta untori veri, ben reali, che con ‘ontioni parte bianche e parte gialle’ hanno imbrattato e incrinato le fondamenta della città. E nessuno, o quasi, s’è accorto del magma putrido che è rimasto dietro le pareti tinteggiate di fresco, sotto i tetti rimessi a posto, a infettare, a lacerare, a insanguinare, a distruggere”.
La lezione di Manzoni è ancora qui: riflettere magistralmente sul nodo della scelta morale dei singoli, anche in tempi di corruzione e di istituzioni malate.