“Mi sto facendo troppo coinvolgere da questo delitto. In più ho accettato un lavoro che mi farà conoscere e accostare altri corpi trucidati, altre voci zittite brutalmente. Forse è stato sconsiderato da parte mia dire di sì ad un programma sui crimini contro le donne; avrei dovuto rifiutare con un bel no”.
E’ la reazione istintiva della giornalista radiofonica Michela Canova, quando viene a sapere del brutale omicidio della sua vicina di casa Angela Bari, circostanza che la porta ad affiancare nelle indagini la commissaria Adele Sòfia e a vedersi assegnata un’inchiesta sui delitti impuniti contro le donne e a finire proiettata in un universo di violenze da cui non sa se potrà uscire intatta.
E’ la trama di ‘Voci’, che Dacia Maraini scrive nel 1994, quando medici, poliziotti, giudici e operatori sociali ben conoscevano l’ampiezza e la gravità degli abusi, ma i media parlavano di rado dell’argomento, e di fronte ad un mondo che nasconde con ipocrisia e indifferenza la vita degli esclusi e le loro ferite, o li dimentica nella fretta della vita quotidiana, l’istinto è quello di non farsi coinvolgere.
Oppure si riconosce che il sopruso avviene, ma in altre civiltà o in altre classi e gruppi sociali, e si è riluttanti ad accettare la sua presenza tra noi.
Dacia Maraini ha usato la sua scrittura per far durare davanti ai nostri occhi la sofferenza, per dare voce a molte persone che, seguendo convenzioni e norme della tradizione, hanno dovuto accettare un ruolo ai margini sacrificando i loro diritti, e così facendo ha prestato la sua rabbia al loro riscatto e alla nostra consapevolezza.
Michela Canova ha dei dubbi sul patrigno di Angela Bari, che nel suo studio di scultore conserva la statua di “una ragazzina nuda in una posa languida, sensuale. Ha i fianchi stretti, la testa coronata da un caschetto gonfio, le spalle scivolate, morbide, il seno appena in boccio. Sembra uscita, dolce e arresa, da un sogno proibito”, ed assomiglia ad Angela. I sospetti vengono confermati dalla sorella della vittima, Ludovica, una bambina trascurata e infelice: “Si sentiva brutta, con i denti storti, i capelli striminziti, le gambe secche”. Il patrigno è stato cortese con lei: “Pensa, mi dicevo, quest’uomo grande e intelligente, serio e sicuro di sé, viene a cercare la compagnia di un essere minuscolo e insignificante come me. Mi sono sentita sciogliere di gratitudine per lui. Poi improvvisamente è salito su di me con tutto il suo peso, se parli, farò morire tua madre e tua sorella”.
Il senso di violazione è forte, “andavo in giro come appestata” e la denuncia è inutile, perché sembrava che la madre “sapesse tutto e accettasse ogni cosa come inevitabile”.
Angela e Ludovica hanno provato per il patrigno un insieme contraddittorio di sentimenti, repulsione e attaccamento. Ludovica afferma che ”non si può continuare a detestare chi mescola il suo fiato al tuo… lo puoi uccidere, forse, ma non odiare; l’odio si mescolava irrimediabilmente al desiderio […] amavo la mia degradazione in lui, ero innamorata dell’orrore e volevo solo che continuasse”.
Angela viene uccisa quando decide di denunciare il malsano potenziale che il patrigno ha su di lei.
Difficile accettare per il pubblico italiano degli anni ‘90 che la violenza sulle donne e la pedofilia fossero una realtà diffusa, che si manifestasse spesso come incesto, che gli abusanti non sono solo gli altri, ubriachi e drogati abietti, ma anche e soprattutto persone di famiglia.
Una realtà non solo retaggio di una cultura regionale patriarcale che la scrittrice siciliana conosce bene, né relegata e conclusa nella Bagheria della prima metà del Settecento, dove la piccola Marianna Ucrìa diventa sordomuta per il trauma di una violenza subita: “Si erano sentiti dei gridi da accapponare la pelle e Marianna con le gambe sporche di sangue era stata portata via, trascinata dal padre e da Raffaele Cuffa, strana l’assenza delle donne… il fatto è che sì, ora lo ricorda, lo zio Pietro, quel capraro maledetto, l’aveva assalita e lasciata mezza morta… sì lo zio Pietro, ora è chiarissimo, come aveva potuto dimenticarlo? per amore, diceva lui, per amore sacrosanto che lui l’adorava quella bambina e se n’era nisciutu pazzu”.
E che dire di Viollca, la bambina albanese che nelle intenzioni dei genitori deve recarsi in Italia presso alcuni signori, guadagnare qualche soldo e ritornare in patria?
“Con le gonne al sedere, le gambe velate da calze a rete, il reggicalze rosso che sbuca da sotto le mutande, i tacchi alti, il top scintillante, la ragazzina appare sulla porta, sbalordita; […] vede che l’uomo ha tirato fuori dai pantaloni una salsiccia bruna, quindi prende le mani della bambina e le stringe sul salsicciotto che è morbido come fosse di bambagia; Viollca osserva le duecentomila lire che tiene tra le dita. Intanto vede l’uomo che si torce, sussulta e poi sputa dalla salsiccia qualcosa di bianco che le sporca le calze”.
Nei racconti di ‘Buio’ del 1999 c’è anche spazio per una storia che assomiglia a tante altre, quella di Macaca e di suo marito Pippo: un rapporto dolce e sereno fino a quando l’uomo la insulta per aver rovinato le sue mani da casalinga con i detersivi, e le chiede di inginocchiarsi e chiedere scusa: “Era la prima volta che mio marito mi metteva paura. Non lo capivo più, non capivo cosa voleva da me. Ma poi tutto è tornato normale”. E invece Pippo inizia a bere e riempie Macaca di calci e pugni, la donna vuole andarsene, “ma vedendolo così felice, così tenero e affettuoso nei giorni dopo le botte, pensavo, forse gli passa, non lo farà più…intanto ha smesso di bere, lavora, mi riempie di regali”.
Segnata in prima persona dalla perdita di un bambino per aborto spontaneo, la scrittrice ci regala riflessioni profonde anche sulla maternità, di volta in volta perduta, interrotta, imposta.
“In queste acque dolci e scure ho visto galleggiare un piccolo guizzante corpo bianco dai bagliori luminosi. Ho pensato che era il mio bambino perduto, morto prima di nascere. Il medico, alle mie insistenze, mi aveva detto poi che era un maschio e che aveva i piedi grandi. Chissà quante strade avrebbe percorso con quei due piedi lunghi, il mio figlio perduto anzitempo”.
Ci sono poi donne di mondi poveri che in coscienza praticano aborti disperati e rischiosi, infilando nell’utero un tubo di gomma per provocare un’emorragia; ragazzine dei paesi africani che tra i 10 e 15 anni partoriscono eredi per uomini tre volte più anziani: loro non abortiscono, perché i figli portano onore e le vergini non sono considerate un valore, perché non dimostrano la capacità di procreare.
“L’aborto sembra essere il luogo maledetto dell’impotenza storica femminile. Lì dove si rappresenta la perdita ripetuta del controllo sulla riproduzione della specie. L’aborto è dolore e impotenza fatta azione. E’ l’autoconsacrazione di una sconfitta. Una sconfitta storica bruciante e terribile che si esprime in un gesto brutale contro se stesse e il figlio concepito”.
Nei nostri giorni noi abbiamo coniato nuovi termini per tanti e troppi orrori, rimaniamo sospesi tra commozione e sgomento, qualcuno ancora sceglie di non guardare e corriamo il rischio dell’assuefazione di fronte all’ennesima donna stuprata o ad una bambina rapita e sparita nel nulla: non possiamo permetterlo, perché non tutte riescono a rovesciare il racconto della violenza e a non farsi cancellare.