“Io sono qui perché ho scritto poesie, un prodotto assolutamente inutile, ma quasi mai nocivo e questo è uno dei suoi titoli di nobiltà”.
Cominciava così il discorso di Montale quando il 12 Dicembre 1975 riceveva il Premio Nobel per la letteratura, domandandosi se fosse ancora utile scrivere versi nella modernità. Da allora i poeti vincitori del premio sono stati poco più di una decina, tra le voci femminili Wislawa Szymborska nel 1996 e nel 2020 Louise Glück, nata a New York da emigrati ebrei ungheresi. Nonostante la distrazione crescente prodotta dai mass media e l’ossessione di apparire imposta dalla società dello spettacolo, se per Montale la poesia rimarrà per sempre ‘una malattia incurabile’, per la poetessa americana è ‘una forma di servizio’: deve illuminare il percorso della vita per dare conforto al lettore.
Secondo Louise Glück al poeta è affidato il compito di mostrare il dolore e insegnare ad accettarlo, perché la sofferenza è una parte autentica della nostra umanità; condividendo la propria personale esperienza di afflizione, il poeta dona una forma di consolazione collettiva che ci fa sentire meno soli.
La parola poetica nasce quindi da un momento privato, ma poi lo supera per dare vita a qualcosa di nuovo e fertile: il vissuto autobiografico diventa verità in cui tutti possono ritrovarsi: “Io attingo i materiali che la mia vita mi ha dato, ma mi interessa che sembrino paradigmatici […] Ciò che usi è la tua esperienza personale come laboratorio, in cui praticare e padroneggiare quello che ti sembra un dilemma umano fondamentale”.
Non deve perciò stupire che nella sua poesia ritornino gli archetipi del mito, personaggi e situazioni che diventano modelli esemplari dei conflitti umani e del loro dramma.
“Nella storia di Patroclo / nessuno sopravvive, neppure Achille / il semidio. / Patroclo gli assomigliava; portavano / la stessa armatura. / In queste amicizie c’è sempre / uno che serve l’altro, che è meno dell’altro: / la gerarchia / è sempre palese, benché delle leggende / non ci si possa fidare — / la fonte è il sopravvissuto, / colui che è stato abbandonato. / Cos’erano le navi greche in fiamme / rispetto al suo lutto? / Nella tenda, Achille / piangeva con tutto il suo essere / e gli dei videro / che era un uomo già morto, vittima / della parte che amava, / la parte mortale”.
Nel testo ‘Il trionfo di Achille’, anche un semidio fa i conti con le paure più recondite dell’animo: l’eroe che si credeva invulnerabile viene descritto in tutta la sua umanità; piange per una perdita, un dolore insanabile, quello per la morte di un amico che si porta via un pezzo di noi.
‘Parodos’ è invece la testimonianza di un dolore che ha creato una frattura profonda; non importa sapere quale, conta la reazione all’evento: una condizione di totale immobilità, con gli altri irraggiungibili e incapaci di comprendere le parole, fino alla scoperta di una vocazione, quella di testimoniare i grandi misteri della vita, o meglio le prove, le tappe obbligate dell’esistere a cui nessuno può sottrarsi.
“Molto tempo fa, sono stata ferita. / Imparai / a esistere, come reazione, / fuori dal contatto / con il mondo: vi dirò / cosa volevo essere – / un congegno fatto per ascoltare. / Non inerte: immobile. / Un pezzo di legno. Una pietra. / Perché dovrei stancarmi a discutere, replicare? / Quelli che respiravano negli altri letti / non erano certo in grado di seguirmi, essendo / incontrollabili / come lo sono i sogni – […] / Ero nata con una vocazione: / testimoniare / i grandi misteri. / Ora che ho visto / e nascita e morte, so / che per la buia natura esse / sono prove, non / misteri –”.
Le traduzioni dei suoi testi cercano di restituire una scrittura elegante e curata nelle forme, nonostante il linguaggio semplice. Non è una poesia musicale quella della poetessa, è più adatta alla lettura in solitudine che all’ascolto, ma è stato detto che è una creazione straordinaria fatta di parole ordinarie.
Una storia per bambini nasce dal confinamento a causa della pandemia da Covid – 19 e da una condizione di paura che ha oscurato per tutti la visione del futuro; nelle vicende di una famiglia in viaggio, si contrappongono sguardo infantile e adulto, la calma della natura e la disperazione umana, per dire al lettore che la salvezza deve escludere l’isolamento individuale e diventare necessariamente un’aspirazione collettiva:
“Stanchi della vita campestre, il re e la regina / ritornarono in città, tutte le principessine / rumoreggiano dietro nell’auto, cantando la canzone dell’essere / io sono, tu sei, lui, lei, esso è – / Ma non ci sarà / nessuna coniugazione nell’auto, oh no. / Chi può parlare del futuro? Nessuno sa qualcosa del futuro, / nemmeno i pianeti. / Ma le principesse dovranno viverci. / Che giornata triste si è fatta. / Fuori dall’auto, mucche e pascoli scorrono via; / sembrano calmi, ma la calma non è la verità. / La disperazione è la verità. Questo lo sanno / il padre e la madre. Ogni speranza è perduta. / Dobbiamo tornare dove è stata perduta / se vogliamo ritrovarla”.
Spesso, quando l’atmosfera diventa cupa, leggere versi aiuta a mitigare il dolore.