“La sofferenza psichica non è qualcosa di estraneo alla vita, ma una possibilità umana che è in noi, in ciascuno di noi, con le sue ombre e con le sue incandescenze emozionali”. Lo ha affermato e scritto nei suoi saggi Eugenio Borgna, per anni direttore del servizio psichiatrico dell’Ospedale Maggiore di Novara, tra i primi ad adottare un metodo di cura che escludeva la contenzione per indagare, anche con il supporto delle scienze umane, la dimensione profonda del disagio psichico.

E’ sempre stato un convinto assertore che la psichiatria non può fare a meno della poesia, che l’aiuta a riconoscere la fragilità e l’umanità della malattia mentale: non solo perché le terapie non sempre sono in grado di cancellare le sofferenze dell’anima, che sfidano parole consuete e farmaci, ma perché la cura non può fare a meno delle parole per esprimere il dolore e per aprirsi alla speranza e perché ci sono follie che alimentano sorgenti creative altrimenti inconoscibili.

La poesia di Alda Merini è in questo senso emblematica: i versi di tutta una vita danno forma ad un’altissima e drammatica riflessione sulla sua esperienza in manicomio e sono allo stesso tempo il riscatto dal dolore e dall’emarginazione.

“Un’armonia mi suona nelle vene, //allora simile a Dafne / mi trasmuto in un albero alto, / Apollo, perché tu non mi fermi. / Ma sono una Dafne / accecata dal fumo della follia, / non ho foglie nè fiori; / eppure mentre mi trasmigro / nasce profonda la luce / e nella solitudine arborea / volgo una triade di Dei”.

La poetessa declina in rapporto alla propria biografia il mito classico di Apollo e Dafne, evidenziando il ‘fumo della follia’ che la acceca nel tentativo di sfuggire al dio molesto. Oltre all’angoscia della follia l’io lirico patisce l’assenza di germogli e fiori, compensata però da una luce profonda; avverte la propria diversità, che impedisce di compiere una metamorfosi canonica, da cui non nascerà un alloro, bensì una luce che può compensare la sofferenza.

E’ altresì consapevole che “Le più belle poesie / si scrivono sopra le pietre / coi ginocchi piagati / e le menti aguzzate dal mistero. / Le più belle poesie si scrivono / davanti a un altare vuoto, / accerchiati da argenti /della divina follia”.

Le ricorrenti crisi nervose hanno portato la poetessa milanese, a partire dal 1965, ad un periodo di internamento durato più di dieci anni, tra interruzioni e riprese, un’esperienza ricordata come terrificante e profondamente ingiusta. Erano anni in cui i malati venivano segregati, spogliati della propria soggettività e privati dei diritti civili: nei manicomi non esistevano più uomini e donne, solo internati, al di là di un confine netto che divideva in due lo spazio sociale e culturale del ‘noi’ e ‘loro’.

Nella narrazione collettiva i malati sono sentiti come marginali, soggetti da evitare, pericolosi. Uno stigma indelebile: “Le mie impronte digitali / prese in manicomio / hanno perseguitato le mie mani / come un rantolo che salisse la vena della vita, / quelle impronte digitali dannate / sono state registrate nel cielo / e vibrano insieme ahimè / alle stelle dell’Orsa maggiore”.

Nel 1984 la raccolta ‘La Terra Santa’ esamina il tema della follia nei dettagli più crudi e rappresenta il manicomio come un mondo separato dagli uomini, dove vige una legge lontana da quella del mondo esterno: “Il manicomio è una grande cassa di risonanza /e il delirio diventa eco / l’anonimità misura, / il manicomio è il monte Sinai, / maledetto, su cui tu ricevi / le tavole di una legge / agli uomini sconosciuta”.

L’esperienza del ricovero è vissuta come una discesa agli inferi, un vero e proprio martirio derivato dalla contenzione, in cui l’autrice canta la propria sofferenza ma con un sguardo attento verso gli esclusi: “Il dottore agguerrito nella notte / viene con passi felpati alla tua sorte, / e sogghignando guarda i volti tristi / degli ammalati, quindi ti ammannisce / una pesante dose sedativa /per colmare il tuo sonno e dentro il braccio / attacca una flebo che sommuove / il tuo sangue irruente di poeta. / Poi se ne va sicuro, devastato / dalla sua incredibile follia / il dottore di guardia, e tu le sbarre / guardi nel sonno come allucinato / e ti canti le nenie del martirio”.

“Quando sono entrata / tre occhi mi hanno raccolto / dentro le loro sfere, / tre occhi duri impazziti / di malate dementi: / allora io ho perso i sensi / ho capito che quel lago / azzurro era uno stagno / melmoso di triti rifiuti / in cui sarei affogata”.

La risalita, le ricadute e poi il ritorno alla vita hanno comportato lacerazioni e la consapevolezza di una perdita, che la poetessa ha misurato nella distanza tra vita vissuta e vita sognata: “Io ero un uccello / dal bianco ventre gentile, / qualcuno mi ha tagliato la gola / per riderci sopra, / non so. / Io ero un albatro grande / e volteggiavo sui mari. / Qualcuno ha fermato il mio viaggio, / senza nessuna carità di suono. / Ma anche distesa per terra / io canto ora per te / le mie canzoni d’amore”.

Pur tormentata da ossessioni e deliri, Alda Merini non si è mai arresa alla malattia e non ha mai rinunciato alla propria vocazione poetica, convinta che la scrittura, il resoconto e la poesia siano un approdo salvifico: “Cessato è finalmente questo inferno, / già da gran tempo, ormai la primavera: / l’indole giusta / del sonno mi risale le caviglie / mi colpisce la testa come un tuono. / Finalmente la pace, / i miei fianchi e la mia mente vinta, / ed io riposo giusta sui declivi / della mia sorte almeno per quell’ora / che mi divide dall’infame aurora”.


Nel 1978 la Legge Basaglia chiuse definitivamente i manicomi e restituì dignità ai pazienti, insieme alla libertà di andarsene per sottrarsi a trattamenti inumani; la malattia psichiatrica non fu più considerata un pretesto per togliere lo status di persona a chi attraversa una condizione di fragilità. Alda Merini gli dedicò questi versi: “Come eravamo innamorati, noi,
/
laggiù nei manicomi / quando speravamo un giorno / di tornare a fiorire / ma la cosa più inaudita, credi, / è stato quando abbiamo scoperto / che non eravamo mai stati malati”.

Solo chi vive a fianco di chi prova questo tipo di dolore può capire che per sconfiggerlo non basta la forza di volontà; può indovinare la quantità di sofferenza che si è interposta tra il tempo dell’infanzia e la vita che si affronta da adulti; osservare un procedere faticoso con un passo che non si solleva da terra, sperare di percepire finalmente un respiro di sollievo, e assistere impotenti alle burrasche del destino.

In uno dei ritratti più famosi di Alda Merini si scorge un accenno di sorriso, dolce e malinconico: occhi che guardano intensamente, con intelligenza, come se sapessero molto e al tempo stesso cercassero attenzione.

Non distogliamo lo sguardo.

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Claudia Cominoli

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Una risposta

  1. bellissima ricostruzione.quando ero bambino tra i vicoli del mio paese sentivo ogni tanto dei gridi che accompagnavano il trasferimento coatto di un “matto” con l’automobile nel manicomio più vicino….grandissima ada merini e le sue stupende poesie….

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La sorella fragile della poesia

“La sofferenza psichica non è qualcosa di estraneo alla vita, ma una possibilità umana che è in noi, in ciascuno di noi, con le sue ombre e con le sue incandescenze emozionali”. Lo ha affermato e scritto nei suoi saggi Eugenio Borgna, per anni direttore del servizio psichiatrico dell’Ospedale Maggiore di Novara, tra i primi ad adottare un metodo di cura che escludeva la contenzione per indagare, anche con il supporto delle scienze umane, la dimensione profonda del disagio psichico.

E’ sempre stato un convinto assertore che la psichiatria non può fare a meno della poesia, che l’aiuta a riconoscere la fragilità e l’umanità della malattia mentale: non solo perché le terapie non sempre sono in grado di cancellare le sofferenze dell’anima, che sfidano parole consuete e farmaci, ma perché la cura non può fare a meno delle parole per esprimere il dolore e per aprirsi alla speranza e perché ci sono follie che alimentano sorgenti creative altrimenti inconoscibili.

La poesia di Alda Merini è in questo senso emblematica: i versi di tutta una vita danno forma ad un’altissima e drammatica riflessione sulla sua esperienza in manicomio e sono allo stesso tempo il riscatto dal dolore e dall’emarginazione.

“Un’armonia mi suona nelle vene, //allora simile a Dafne / mi trasmuto in un albero alto, / Apollo, perché tu non mi fermi. / Ma sono una Dafne / accecata dal fumo della follia, / non ho foglie nè fiori; / eppure mentre mi trasmigro / nasce profonda la luce / e nella solitudine arborea / volgo una triade di Dei”.

La poetessa declina in rapporto alla propria biografia il mito classico di Apollo e Dafne, evidenziando il ‘fumo della follia’ che la acceca nel tentativo di sfuggire al dio molesto. Oltre all’angoscia della follia l’io lirico patisce l’assenza di germogli e fiori, compensata però da una luce profonda; avverte la propria diversità, che impedisce di compiere una metamorfosi canonica, da cui non nascerà un alloro, bensì una luce che può compensare la sofferenza.

E’ altresì consapevole che “Le più belle poesie / si scrivono sopra le pietre / coi ginocchi piagati / e le menti aguzzate dal mistero. / Le più belle poesie si scrivono / davanti a un altare vuoto, / accerchiati da argenti /della divina follia”.

Le ricorrenti crisi nervose hanno portato la poetessa milanese, a partire dal 1965, ad un periodo di internamento durato più di dieci anni, tra interruzioni e riprese, un’esperienza ricordata come terrificante e profondamente ingiusta. Erano anni in cui i malati venivano segregati, spogliati della propria soggettività e privati dei diritti civili: nei manicomi non esistevano più uomini e donne, solo internati, al di là di un confine netto che divideva in due lo spazio sociale e culturale del ‘noi’ e ‘loro’.

Nella narrazione collettiva i malati sono sentiti come marginali, soggetti da evitare, pericolosi. Uno stigma indelebile: “Le mie impronte digitali / prese in manicomio / hanno perseguitato le mie mani / come un rantolo che salisse la vena della vita, / quelle impronte digitali dannate / sono state registrate nel cielo / e vibrano insieme ahimè / alle stelle dell’Orsa maggiore”.

Nel 1984 la raccolta ‘La Terra Santa’ esamina il tema della follia nei dettagli più crudi e rappresenta il manicomio come un mondo separato dagli uomini, dove vige una legge lontana da quella del mondo esterno: “Il manicomio è una grande cassa di risonanza /e il delirio diventa eco / l’anonimità misura, / il manicomio è il monte Sinai, / maledetto, su cui tu ricevi / le tavole di una legge / agli uomini sconosciuta”.

L’esperienza del ricovero è vissuta come una discesa agli inferi, un vero e proprio martirio derivato dalla contenzione, in cui l’autrice canta la propria sofferenza ma con un sguardo attento verso gli esclusi: “Il dottore agguerrito nella notte / viene con passi felpati alla tua sorte, / e sogghignando guarda i volti tristi / degli ammalati, quindi ti ammannisce / una pesante dose sedativa /per colmare il tuo sonno e dentro il braccio / attacca una flebo che sommuove / il tuo sangue irruente di poeta. / Poi se ne va sicuro, devastato / dalla sua incredibile follia / il dottore di guardia, e tu le sbarre / guardi nel sonno come allucinato / e ti canti le nenie del martirio”.

“Quando sono entrata / tre occhi mi hanno raccolto / dentro le loro sfere, / tre occhi duri impazziti / di malate dementi: / allora io ho perso i sensi / ho capito che quel lago / azzurro era uno stagno / melmoso di triti rifiuti / in cui sarei affogata”.

La risalita, le ricadute e poi il ritorno alla vita hanno comportato lacerazioni e la consapevolezza di una perdita, che la poetessa ha misurato nella distanza tra vita vissuta e vita sognata: “Io ero un uccello / dal bianco ventre gentile, / qualcuno mi ha tagliato la gola / per riderci sopra, / non so. / Io ero un albatro grande / e volteggiavo sui mari. / Qualcuno ha fermato il mio viaggio, / senza nessuna carità di suono. / Ma anche distesa per terra / io canto ora per te / le mie canzoni d’amore”.

Pur tormentata da ossessioni e deliri, Alda Merini non si è mai arresa alla malattia e non ha mai rinunciato alla propria vocazione poetica, convinta che la scrittura, il resoconto e la poesia siano un approdo salvifico: “Cessato è finalmente questo inferno, / già da gran tempo, ormai la primavera: / l’indole giusta / del sonno mi risale le caviglie / mi colpisce la testa come un tuono. / Finalmente la pace, / i miei fianchi e la mia mente vinta, / ed io riposo giusta sui declivi / della mia sorte almeno per quell’ora / che mi divide dall’infame aurora”.


Nel 1978 la Legge Basaglia chiuse definitivamente i manicomi e restituì dignità ai pazienti, insieme alla libertà di andarsene per sottrarsi a trattamenti inumani; la malattia psichiatrica non fu più considerata un pretesto per togliere lo status di persona a chi attraversa una condizione di fragilità. Alda Merini gli dedicò questi versi: “Come eravamo innamorati, noi,
/
laggiù nei manicomi / quando speravamo un giorno / di tornare a fiorire / ma la cosa più inaudita, credi, / è stato quando abbiamo scoperto / che non eravamo mai stati malati”.

Solo chi vive a fianco di chi prova questo tipo di dolore può capire che per sconfiggerlo non basta la forza di volontà; può indovinare la quantità di sofferenza che si è interposta tra il tempo dell’infanzia e la vita che si affronta da adulti; osservare un procedere faticoso con un passo che non si solleva da terra, sperare di percepire finalmente un respiro di sollievo, e assistere impotenti alle burrasche del destino.

In uno dei ritratti più famosi di Alda Merini si scorge un accenno di sorriso, dolce e malinconico: occhi che guardano intensamente, con intelligenza, come se sapessero molto e al tempo stesso cercassero attenzione.

Non distogliamo lo sguardo.

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