Il mio paesaggio è quello del mare a quadretti, che fin da bambina ho imparato a riconoscere e a percorrere tenuta per mano dal nonno Mario, mentre mi insegnava a camminare sugli argini e a catturare le rane, e che la nonna Clara mi ha raccontato come un mondo di fatica e di privazioni Dalla rubrica letteraria

Il mio paesaggio è quello del mare a quadretti, che fin da bambina ho imparato a riconoscere e a percorrere tenuta per mano dal nonno Mario, mentre mi insegnava a camminare sugli argini e a catturare le rane, e che la nonna Clara mi ha raccontato come un mondo di fatica e di privazioni; con i diserbanti e le mietitrebbie il gracidio delle rane è scomparso, ma anche il paesaggio del riso ha profondamente modificato nei secoli il panorama tra Ticino e Sesia.

Ce lo ricorda Sebastiano Vassalli nel suo libro ‘Terra d’acque’: “La regione in cui viviamo è una delle più modificate dall’opera dell’uomo, la campagna novarese era molto diversa secoli fa, la pianura era ondulata, le acque dei fontanili correvano seguendo la conformazione del terreno, qua e là formavano paludi e piccoli laghi. C’erano prati e foreste, alberi, non, come oggi, solo pioppi canadesi, c’erano querce, ontani, il salice e il sambuco, platani, olmi, gelsi. La coltivazione del riso è passata come un rullo compressore, cancellando e spianando”.

Già nel ‘700 la coltura del riso ha avuto una valenza economica che ha interessato i grandi proprietari terrieri, mentre gli abitanti di Piemonte e Lombardia hanno considerato le risaie come qualcosa di pericoloso e infetto, un luogo assediato dai miasmi e dalla malaria e che ha invaso lo spazio della città.

Il poeta Giuseppe Parini maledice chi per primo ha circondato Milano di acque stagnanti, senza curarsi della salute di abitanti e lavoratori: “Pera colui che primo / a le triste ozïose / acque e al fetido limo / la mia cittade espose; / e per lucro ebbe a vile / la salute civile. / colui […] bestemmia il fango e l’acque / che radunar gli piacque. / Mira dipinti in viso / di mortali pallori / entro al mal nato riso / i languenti cultori”.

Nel presente i miasmi non ci sono più, le acque defluiscono senza ristagnare, ma la coltura del riso ha reso acquatico l’ambiente per molti mesi all’anno, un po’ più bello in alcuni momenti e un po’ meno in altri, come lo descrive Dante Graziosi: “La risaia tra aprile e maggio sembra anche un lago, ma è intersecata e rotta da argini su cui camminano i campari col badile in spalla; poi ha un confine, uccelli che volano all’impazzata e piante altissime, che al vento sembrano giganti in conversazione misteriosa, e tanti aironi bianchi e cinerini, fermi come soprammobili in attesa di una rana. Quel lago è triste; in fondo, l’altra sponda è cupa e senza case”.

Nella terra degli aironi Dante Graziosi ci ricorda che si trovano anche le tracce dell’arte e della fede campagnola: “La risaia d’estate è piena di silenzio, non muove una foglia; solo l’airone cinerino e la candida ‘aigrette’ si alzano improvvisi dalle acque ferme e trapassano l’azzurro del cielo. Ma nel silenzio la pianura parla con la sua voce che viene da lontano: cappellette e oratori antichi sorgono nella campagna di ogni borgo e sembrano oasi nel tempo. Dentro c’è l’arte campagnola di secoli con la storia di miracoli, alla cui luce si irrobustiva la fede della povera gente. Ma anche un’arte più elevata è giunta fino a noi: l’abside di Sologno, la Madonna del Cagnola di Garbagna, la Madonna del Latte di Gionzana, cui vengono ancora le puerpere a pregare”.

Molto prima che l’agricoltura del riso diventasse industria, a partire dagli anni del miracolo economico, la storia delle risaie è stata anche storia sociale e di rivendicazioni sindacali: Silvana Mangano è diventata un’icona del cinema estirpando erbacce insieme a migliaia di altre donne nella pianura vercellese, che ricevevano un salario nettamente inferiore a quello dei lavoratori maschi.

La sua bellezza sofisticata e la sua pelle di luna non rendono in modo realistico la fatica di tante mondine con la schiena ricurva e le gambe nell’acqua, un cappello di paglia in testa per ripararsi dal sole: a loro toccava il lavoro più duro, procedere all’indietro in linea e conficcare la piantina nel terreno, tra zanzare, sanguisughe e bisce.

Oggi alla Cascina Colombara di Livorno Ferraris c’è un museo a loro dedicato, ma nella nostra memoria rimangono tracce letterarie e le loro canzoni.

La Nanna Lavatelli della Marchesa Colombi, che “aveva trascorso la propria infanzia a custodire le oche nell’aia adiacente al cascinale in cui viveva, tra Novara e Trecate”, per potersi permettere uno spillone d’argento tra i capelli e farsi così corteggiare dall’innamorato, decide di lavorare in risaia; un mestiere duro e sfiancante, che le procura i soldi per comprare lo spillone d’argento, ma la priva completamente dei capelli in cui avrebbe dovuto apporlo, modificando il corso della sua esistenza: “Si comincia alle quattro, con le gambe nell’acqua e la testa immersa in un vapore grigio e pesante che entra nelle ossa e mozza il fiato. Peggio ancora quando sorge il sole, un sole cocente di giugno che

acceca e brucia come una fiamma. Verso le due l’ardore del sole era così intenso, che

pareva di sentirsi guizzare intorno delle lingue di fuoco, che lambissero le carni, che succhiassero il sangue. Ed a misura che il caldo aumentava, il puzzo delle acque si

faceva più insopportabile”.

Ma è nel patrimonio espressivo musicale che scopriamo le specifiche condizioni della monda, perché la funzione del canto di monda è infatti quella di accompagnare, alleviare e ritmare il tempo del lavoro e di testimoniarne la fatica: “Senti le rane che cantano / che gusto che piacere / lasciare la risaia / tornare al mio paese. / Amore mio non piangere / se me ne vado via, / io lascio la risaia / ritorno a casa mia. / Non sarà più la capa / che sveglia a la mattina / ma là nella casetta / mi sveglia la mammina […] Mamma papà non piangere / non sono più mondina / son ritornata a casa / a far la contadina. / Mamma papà non piangere / se sono consumata / è stata la risaia / che mi ha rovinata”.

Certo, il mio mare a quadretti non è solo il regno del Carnaroli, ma anche della zanzara:

“Animato rumor, tromba vagante, / che solo per ferir talor ti posi, / turbamento de l’ombre e de’ riposi, / fremito alato e mormorio volante; / per ciel notturno animaletto errante, / pon freno ai tuoi sussurri aspri e noiosi; / invan ti sforzi tu ch’io non riposi (F. M. Materdona)”.

Ma la grande pianura di fronte alle montagne, anche se a volte mi piace meno di altri posti più belli, è il luogo dove vivo da sempre e, come diceva Vassalli, “il mio granello di felicità, quel granello che ogni uomo porta con sé nel momento di nascere, è sepolto in questa pianura, tra il Ticino e la Sesia. Ancora non l’ho trovato, ma continuo a cercarlo”.

E’ per questo forse che, ogni volta che rientro da un viaggio e vedo gli aironi o gli specchi d’acqua, mi sento finalmente a casa.

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Claudia Cominoli

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La terra degli aironi

Il mio paesaggio è quello del mare a quadretti, che fin da bambina ho imparato a riconoscere e a percorrere tenuta per mano dal nonno Mario, mentre mi insegnava a camminare sugli argini e a catturare le rane, e che la nonna Clara mi ha raccontato come un mondo di fatica e di privazioni
Dalla rubrica letteraria

Il mio paesaggio è quello del mare a quadretti, che fin da bambina ho imparato a riconoscere e a percorrere tenuta per mano dal nonno Mario, mentre mi insegnava a camminare sugli argini e a catturare le rane, e che la nonna Clara mi ha raccontato come un mondo di fatica e di privazioni; con i diserbanti e le mietitrebbie il gracidio delle rane è scomparso, ma anche il paesaggio del riso ha profondamente modificato nei secoli il panorama tra Ticino e Sesia.

Ce lo ricorda Sebastiano Vassalli nel suo libro ‘Terra d’acque’: “La regione in cui viviamo è una delle più modificate dall’opera dell’uomo, la campagna novarese era molto diversa secoli fa, la pianura era ondulata, le acque dei fontanili correvano seguendo la conformazione del terreno, qua e là formavano paludi e piccoli laghi. C’erano prati e foreste, alberi, non, come oggi, solo pioppi canadesi, c’erano querce, ontani, il salice e il sambuco, platani, olmi, gelsi. La coltivazione del riso è passata come un rullo compressore, cancellando e spianando”.

Già nel ‘700 la coltura del riso ha avuto una valenza economica che ha interessato i grandi proprietari terrieri, mentre gli abitanti di Piemonte e Lombardia hanno considerato le risaie come qualcosa di pericoloso e infetto, un luogo assediato dai miasmi e dalla malaria e che ha invaso lo spazio della città.

Il poeta Giuseppe Parini maledice chi per primo ha circondato Milano di acque stagnanti, senza curarsi della salute di abitanti e lavoratori: “Pera colui che primo / a le triste ozïose / acque e al fetido limo / la mia cittade espose; / e per lucro ebbe a vile / la salute civile. / colui […] bestemmia il fango e l’acque / che radunar gli piacque. / Mira dipinti in viso / di mortali pallori / entro al mal nato riso / i languenti cultori”.

Nel presente i miasmi non ci sono più, le acque defluiscono senza ristagnare, ma la coltura del riso ha reso acquatico l’ambiente per molti mesi all’anno, un po’ più bello in alcuni momenti e un po’ meno in altri, come lo descrive Dante Graziosi: “La risaia tra aprile e maggio sembra anche un lago, ma è intersecata e rotta da argini su cui camminano i campari col badile in spalla; poi ha un confine, uccelli che volano all’impazzata e piante altissime, che al vento sembrano giganti in conversazione misteriosa, e tanti aironi bianchi e cinerini, fermi come soprammobili in attesa di una rana. Quel lago è triste; in fondo, l’altra sponda è cupa e senza case”.

Nella terra degli aironi Dante Graziosi ci ricorda che si trovano anche le tracce dell’arte e della fede campagnola: “La risaia d’estate è piena di silenzio, non muove una foglia; solo l’airone cinerino e la candida ‘aigrette’ si alzano improvvisi dalle acque ferme e trapassano l’azzurro del cielo. Ma nel silenzio la pianura parla con la sua voce che viene da lontano: cappellette e oratori antichi sorgono nella campagna di ogni borgo e sembrano oasi nel tempo. Dentro c’è l’arte campagnola di secoli con la storia di miracoli, alla cui luce si irrobustiva la fede della povera gente. Ma anche un’arte più elevata è giunta fino a noi: l’abside di Sologno, la Madonna del Cagnola di Garbagna, la Madonna del Latte di Gionzana, cui vengono ancora le puerpere a pregare”.

Molto prima che l’agricoltura del riso diventasse industria, a partire dagli anni del miracolo economico, la storia delle risaie è stata anche storia sociale e di rivendicazioni sindacali: Silvana Mangano è diventata un’icona del cinema estirpando erbacce insieme a migliaia di altre donne nella pianura vercellese, che ricevevano un salario nettamente inferiore a quello dei lavoratori maschi.

La sua bellezza sofisticata e la sua pelle di luna non rendono in modo realistico la fatica di tante mondine con la schiena ricurva e le gambe nell’acqua, un cappello di paglia in testa per ripararsi dal sole: a loro toccava il lavoro più duro, procedere all’indietro in linea e conficcare la piantina nel terreno, tra zanzare, sanguisughe e bisce.

Oggi alla Cascina Colombara di Livorno Ferraris c’è un museo a loro dedicato, ma nella nostra memoria rimangono tracce letterarie e le loro canzoni.

La Nanna Lavatelli della Marchesa Colombi, che “aveva trascorso la propria infanzia a custodire le oche nell’aia adiacente al cascinale in cui viveva, tra Novara e Trecate”, per potersi permettere uno spillone d’argento tra i capelli e farsi così corteggiare dall’innamorato, decide di lavorare in risaia; un mestiere duro e sfiancante, che le procura i soldi per comprare lo spillone d’argento, ma la priva completamente dei capelli in cui avrebbe dovuto apporlo, modificando il corso della sua esistenza: “Si comincia alle quattro, con le gambe nell’acqua e la testa immersa in un vapore grigio e pesante che entra nelle ossa e mozza il fiato. Peggio ancora quando sorge il sole, un sole cocente di giugno che

acceca e brucia come una fiamma. Verso le due l’ardore del sole era così intenso, che

pareva di sentirsi guizzare intorno delle lingue di fuoco, che lambissero le carni, che succhiassero il sangue. Ed a misura che il caldo aumentava, il puzzo delle acque si

faceva più insopportabile”.

Ma è nel patrimonio espressivo musicale che scopriamo le specifiche condizioni della monda, perché la funzione del canto di monda è infatti quella di accompagnare, alleviare e ritmare il tempo del lavoro e di testimoniarne la fatica: “Senti le rane che cantano / che gusto che piacere / lasciare la risaia / tornare al mio paese. / Amore mio non piangere / se me ne vado via, / io lascio la risaia / ritorno a casa mia. / Non sarà più la capa / che sveglia a la mattina / ma là nella casetta / mi sveglia la mammina […] Mamma papà non piangere / non sono più mondina / son ritornata a casa / a far la contadina. / Mamma papà non piangere / se sono consumata / è stata la risaia / che mi ha rovinata”.

Certo, il mio mare a quadretti non è solo il regno del Carnaroli, ma anche della zanzara:

“Animato rumor, tromba vagante, / che solo per ferir talor ti posi, / turbamento de l’ombre e de’ riposi, / fremito alato e mormorio volante; / per ciel notturno animaletto errante, / pon freno ai tuoi sussurri aspri e noiosi; / invan ti sforzi tu ch’io non riposi (F. M. Materdona)”.

Ma la grande pianura di fronte alle montagne, anche se a volte mi piace meno di altri posti più belli, è il luogo dove vivo da sempre e, come diceva Vassalli, “il mio granello di felicità, quel granello che ogni uomo porta con sé nel momento di nascere, è sepolto in questa pianura, tra il Ticino e la Sesia. Ancora non l’ho trovato, ma continuo a cercarlo”.

E’ per questo forse che, ogni volta che rientro da un viaggio e vedo gli aironi o gli specchi d’acqua, mi sento finalmente a casa.

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