Le città sono fatte di sogni e paure

La fondazione della città nasce da un sogno: una donna attraente scappa di notte tra vie sconosciute, inafferrabile, proprio come la comunità nasce a partire dall’inseguimento di un’ideale di città. Per costruirla ci si ispira al medesimo sogno che uomini di tanti luoghi diversi hanno fatto, per edificarla si ricorda quello che si è sognato, si guarda al modello ideale di convivenza, il sogno deve essere incarnato. Dove si teme che la fuggitiva scappi, si cambiano ponti e portici, si pongono ostacoli, leggi e norme condivise, che ridimensionano il sogno e limitano la nostra libertà, ma garantiscono il nostro stare insieme.

Nel Novembre del 1972 Italo Calvino pubblicava per Einaudi ‘Le città invisibili’: un cinquantesimo anniversario che anticipa le celebrazioni nel 2023 per il centenario della nascita dello scrittore.

Calvino immagina che l’imperatore dei tartari Kublai Kan, ormai impossibilitato a muoversi per l’età avanzata, malinconico perché ha capito che il suo sterminato dominio conta ben poco e sta andando in rovina, affidi ad un Marco Polo visionario il compito di esplorare la province remote del suo impero, per poi tornare a riferirgli la situazione in cui versano le città del suo territorio.

Gli agglomerati urbani, di cui il mercante veneziano parla con fervida fantasia e grande capacità affabulatoria, di fatto non esistono, sono ‘invisibili’, ma diventano espressione del desiderio di vita nutrito dall’uomo.

Le città inventate hanno tutte nomi di donna e possono essere interpretate come proiezioni di sogni o manifestazioni di incubi, viaggi nella memoria, esplorazioni di paradisi artificiali; incarnano attese del futuro, ricordi di antichi conflitti.

Sono la chiara testimonianza della necessità di credere nell’utopia, non semplicemente desiderio di evadere dalla realtà, ma bisogno di ripensare al destino umano in termini di riscatto dalla sofferenza, benessere e responsabilità: oggi diremmo resilienza e sostenibilità.

‘Anastasia non fa che risvegliare i desideri uno per volta per obbligarti a soffocarli. La città ti appare come un tutto in cui nessun desiderio va perduto e di cui tu fai parte, essa gode di tutto quello che tu non godi; tu credi di godere per tutta Anastasia mentre non ne sei che lo schiavo’.

E’ davvero la città il luogo in cui possiamo realizzare l’infinito numero dei nostri bisogni, alimentati dal consumismo più sfrenato?

‘A Cloe le persone che passano per le vie non si conoscono. Al vedersi immaginano mille cose l’uno dell’altro, gli incontri che potrebbero avvenire tra loro, le conversazioni, le sorprese. Ma nessuno saluta nessuno, gli sguardi s’incrociano per un secondo e poi si sfuggono, cercano altri sguardi, non si fermano. […] Così tra chi per caso si trova insieme a ripararsi dalla pioggia sotto il portico, o sosta ad ascoltare la banda in piazza, si consumano incontri, seduzioni, amplessi, senza che ci si scambi una parola, senza che ci si sfiori con un dito, quasi senza alzare gli occhi.’

Bauci invece, si erge su altissimi trampoli che si perdono sopra le nuvole: ‘Ci si sale con scalette, a terra gli abitanti si mostrano di rado, hanno già tutto lassù. Tre ipotesi si danno sugli abitanti di Bauci: che odino la Terra; che la rispettino al punto da evitare ogni contatto; che la amino com’era prima di loro e con cannocchiali e telescopi puntati in giù non si stanchino di passarla in rassegna, foglia a foglia, sasso a sasso, formica per formica, contemplando affascinati la propria assenza.’

Siamo noi, quelli che non si curano della Terra? Tendiamo a isolarci, mascherando l’indifferenza con un rispetto di facciata?

‘La città di Moriana ha porte d’alabastro splendenti di luce, ma se non è al suo primo viaggio, l’uomo sa già che le città come questa hanno un rovescio: basta percorrere un semicerchio e si avrà in vista la faccia nascosta di Moriana, una distesa di lamiera arrugginita, tela di sacco, tubi neri di fuliggine, mucchi di barattoli, muri ciechi con scritte stinte, telai di sedie spagliate. Non ha spessore: consiste solo in un dritto e rovescio.’

‘Se toccando terra a Trude non avessi letto il nome scritto a grandi lettere, avrei creduto d’essere arrivato allo stesso aeroporto da cui ero partito. I sobborghi che mi fecero attraversare non erano diversi da quegli altri. Le vie del centro mettevano in mostra mercanzie imballaggi insegne che non cambiavano in nulla. Era la prima volta che venivo a Trude, ma conoscevo già l’albergo in cui mi capitò di scendere. – Puoi riprendere il volo quando vuoi, – mi dissero, – ma arriverai ad un’altra Trude, il mondo è ricoperto da un’unica Trude che non comincia e non finisce, cambia solo il nome all’aeroporto.’

Tutte le città di Calvino vivono già la contraddizione della nostra contemporaneità, il contrasto tra l’utopia della purezza e della sostenibilità e la visione di un mondo omologato, caotico e problematico. Sono 55, una in più di quelle di ‘Utopia’ di Tommaso Moro: sono occasione di incontro e dialogo, contenitori di Storia, un posto felice , ‘eu – topos’; oppure sono ‘ou – topoi’, non luoghi, outlet, campi profughi, ascensori, sale d’attesa; spazi di transito, di incontri anonimi, dove l’uomo non costruisce relazioni, è solo un frenetico consumatore condannato all’assenza di una identità culturale, paradossalmente un uomo isolato in luoghi affollatissimi.

Il libro di Calvino è un poema d’amore alle città, in un momento in cui, negli anni ‘70, già diventava difficile viverle. Oggi si parla con insistenza della distruzione dell’ambiente e insieme della fragilità dei sistemi tecnologici, della crisi delle città troppo grandi, della città continua, uniforme, che va coprendo il mondo. A Marco Polo viene affidato l’incarico di scoprire le ragioni segrete che hanno portato gli uomini a vivere in città, ragioni che potranno valere al di là di tutte le crisi.

E nel celeberrimo finale del libro l’invito è quello di cogliere e preservare ciò che di buono prende forma, ma rischia di svanire nascosto nelle città infelici:

‘L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.’

Immagine: Fausto Melotti, Le torri della città invisibile, 1976

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Le città sono fatte di sogni e paure

La fondazione della città nasce da un sogno: una donna attraente scappa di notte tra vie sconosciute, inafferrabile, proprio come la comunità nasce a partire dall’inseguimento di un’ideale di città. Per costruirla ci si ispira al medesimo sogno che uomini di tanti luoghi diversi hanno fatto, per edificarla si ricorda quello che si è sognato, si guarda al modello ideale di convivenza, il sogno deve essere incarnato. Dove si teme che la fuggitiva scappi, si cambiano ponti e portici, si pongono ostacoli, leggi e norme condivise, che ridimensionano il sogno e limitano la nostra libertà, ma garantiscono il nostro stare insieme.

Nel Novembre del 1972 Italo Calvino pubblicava per Einaudi ‘Le città invisibili’: un cinquantesimo anniversario che anticipa le celebrazioni nel 2023 per il centenario della nascita dello scrittore.

Calvino immagina che l’imperatore dei tartari Kublai Kan, ormai impossibilitato a muoversi per l’età avanzata, malinconico perché ha capito che il suo sterminato dominio conta ben poco e sta andando in rovina, affidi ad un Marco Polo visionario il compito di esplorare la province remote del suo impero, per poi tornare a riferirgli la situazione in cui versano le città del suo territorio.

Gli agglomerati urbani, di cui il mercante veneziano parla con fervida fantasia e grande capacità affabulatoria, di fatto non esistono, sono ‘invisibili’, ma diventano espressione del desiderio di vita nutrito dall’uomo.

Le città inventate hanno tutte nomi di donna e possono essere interpretate come proiezioni di sogni o manifestazioni di incubi, viaggi nella memoria, esplorazioni di paradisi artificiali; incarnano attese del futuro, ricordi di antichi conflitti.

Sono la chiara testimonianza della necessità di credere nell’utopia, non semplicemente desiderio di evadere dalla realtà, ma bisogno di ripensare al destino umano in termini di riscatto dalla sofferenza, benessere e responsabilità: oggi diremmo resilienza e sostenibilità.

‘Anastasia non fa che risvegliare i desideri uno per volta per obbligarti a soffocarli. La città ti appare come un tutto in cui nessun desiderio va perduto e di cui tu fai parte, essa gode di tutto quello che tu non godi; tu credi di godere per tutta Anastasia mentre non ne sei che lo schiavo’.

E’ davvero la città il luogo in cui possiamo realizzare l’infinito numero dei nostri bisogni, alimentati dal consumismo più sfrenato?

‘A Cloe le persone che passano per le vie non si conoscono. Al vedersi immaginano mille cose l’uno dell’altro, gli incontri che potrebbero avvenire tra loro, le conversazioni, le sorprese. Ma nessuno saluta nessuno, gli sguardi s’incrociano per un secondo e poi si sfuggono, cercano altri sguardi, non si fermano. […] Così tra chi per caso si trova insieme a ripararsi dalla pioggia sotto il portico, o sosta ad ascoltare la banda in piazza, si consumano incontri, seduzioni, amplessi, senza che ci si scambi una parola, senza che ci si sfiori con un dito, quasi senza alzare gli occhi.’

Bauci invece, si erge su altissimi trampoli che si perdono sopra le nuvole: ‘Ci si sale con scalette, a terra gli abitanti si mostrano di rado, hanno già tutto lassù. Tre ipotesi si danno sugli abitanti di Bauci: che odino la Terra; che la rispettino al punto da evitare ogni contatto; che la amino com’era prima di loro e con cannocchiali e telescopi puntati in giù non si stanchino di passarla in rassegna, foglia a foglia, sasso a sasso, formica per formica, contemplando affascinati la propria assenza.’

Siamo noi, quelli che non si curano della Terra? Tendiamo a isolarci, mascherando l’indifferenza con un rispetto di facciata?

‘La città di Moriana ha porte d’alabastro splendenti di luce, ma se non è al suo primo viaggio, l’uomo sa già che le città come questa hanno un rovescio: basta percorrere un semicerchio e si avrà in vista la faccia nascosta di Moriana, una distesa di lamiera arrugginita, tela di sacco, tubi neri di fuliggine, mucchi di barattoli, muri ciechi con scritte stinte, telai di sedie spagliate. Non ha spessore: consiste solo in un dritto e rovescio.’

‘Se toccando terra a Trude non avessi letto il nome scritto a grandi lettere, avrei creduto d’essere arrivato allo stesso aeroporto da cui ero partito. I sobborghi che mi fecero attraversare non erano diversi da quegli altri. Le vie del centro mettevano in mostra mercanzie imballaggi insegne che non cambiavano in nulla. Era la prima volta che venivo a Trude, ma conoscevo già l’albergo in cui mi capitò di scendere. – Puoi riprendere il volo quando vuoi, – mi dissero, – ma arriverai ad un’altra Trude, il mondo è ricoperto da un’unica Trude che non comincia e non finisce, cambia solo il nome all’aeroporto.’

Tutte le città di Calvino vivono già la contraddizione della nostra contemporaneità, il contrasto tra l’utopia della purezza e della sostenibilità e la visione di un mondo omologato, caotico e problematico. Sono 55, una in più di quelle di ‘Utopia’ di Tommaso Moro: sono occasione di incontro e dialogo, contenitori di Storia, un posto felice , ‘eu – topos’; oppure sono ‘ou – topoi’, non luoghi, outlet, campi profughi, ascensori, sale d’attesa; spazi di transito, di incontri anonimi, dove l’uomo non costruisce relazioni, è solo un frenetico consumatore condannato all’assenza di una identità culturale, paradossalmente un uomo isolato in luoghi affollatissimi.

Il libro di Calvino è un poema d’amore alle città, in un momento in cui, negli anni ‘70, già diventava difficile viverle. Oggi si parla con insistenza della distruzione dell’ambiente e insieme della fragilità dei sistemi tecnologici, della crisi delle città troppo grandi, della città continua, uniforme, che va coprendo il mondo. A Marco Polo viene affidato l’incarico di scoprire le ragioni segrete che hanno portato gli uomini a vivere in città, ragioni che potranno valere al di là di tutte le crisi.

E nel celeberrimo finale del libro l’invito è quello di cogliere e preservare ciò che di buono prende forma, ma rischia di svanire nascosto nelle città infelici:

‘L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.’

Immagine: Fausto Melotti, Le torri della città invisibile, 1976

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