Le mie poesie non cambieranno il mondo. Omaggio a Patrizia Cavalli

Esordisce con questo titolo nel 1974 Patrizia Cavalli, la ‘poeta’, come amava definirsi lei, venuta a mancare nel giorno del solstizio d’estate.

Il nome della sua prima raccolta sembra esprimere un comune sentire di quegli anni, quando altri autori come Montale, Attilio Bertolucci e Pasolini sono consapevoli che la società di massa con i giornali, la tv e il continuo mescolare le regole dell’arte con quelle della comunicazione mette in crisi la cultura umanistica e soprattutto la poesia: in una società in cui la comunicazione avviene in modo istantaneo e superficiale, rapido e facile e, perché no, anche divertente, è illusorio continuare a credere che la lingua speciale della poesia sia più potente e popolare di film e canzoni, più interessante delle arti di massa e della lotta politica.

A chi chiede se abbia ancora senso scrivere versi, Patrizia Cavalli reagisce con rinnovata fiducia nella forza del ritmo; continua a credere che la poesia non possa finire, perché c’è sempre stata e non smette di essere un’esigenza umana fondamentale e fuori dal tempo, e sceglie la strada dell’immediatezza e di un linguaggio semplice, diretto, addirittura parlato:

‘Qualcuno mi ha detto / che certo le mie poesie / non cambieranno il mondo. / Io rispondo che certo sì / le mie poesie / non cambieranno il mondo’.

A chi dunque le contestasse la validità dei suoi versi, è come se rispondesse: “E allora?”, in modo semplice e diretto, uno stile che l’ha fatta apprezzare dal pubblico, ma la cui ‘facilità’ è solo apparente e frutto di maestria.

La poesia non può certo risolvere i problemi degli uomini, ma può essere, almeno per chi la pratica e per i fruitori, una promessa di felicità.

‘A me la poesia serve per essere immortale. Non certo nel senso dei posteri, per carità. Mi salva dal tempo, mi restituisce l’interezza, scorre la mia anima. E’ l’unica cosa che riesco a fare senza sofferenza’.

I suoi versi sono espressione diretta e partecipe di un’esperienza vissuta. Si strutturano intorno a scene quotidiane, con personaggi che agiscono e parlano, in un modo perfettamente comprensibile al lettore: gli scombussolamenti del cuore, l’invecchiamento, l’inesorabile mutare della nostra realtà.

‘Addosso al viso mi cadono le notti / e anche i giorni mi cadono sul viso. / Io li vedo come si accavallano / formando geografie disordinate: / il loro peso non è sempre uguale, / a volte cadono dall’alto e fanno buche…’

L’autrice osserva le trasformazioni del suo volto, come fosse un ‘geometra perito’ che con rigore scientifico misura, conta, divide, mentre il tempo crea nuove ombre. Vorrebbe in segretezza distrarsi, ‘nella confusione perdere i calcoli, / uscire di prigione / ricevere la grazia di una nuova faccia’: vorrebbe approfittare di una distrazione, sfuggire all’esattezza e fermare la decadenza del corpo.

La caduta dell’io poetico sembra a volte inevitabile, un io non in sintonia con il mondo, imbrigliato in una angosciosa impotenza di agire sulla realtà:

‘Cado e ricado, inciampo e cado, mi alzo / e poi ricado, le ricadute / sono la mia specialità… Grandi equilibri mi circondano / ma non mi reggono, anzi proprio perché io cado / si sorreggono’.

C’è spazio anche per l’amore, quello di una donna in attesa di un incontro che scopre come l’essere innamorati piano piano sciolga rigidità e resistenze e permetta al sentimento di allentare ogni tensione:

‘Ma prima bisogna liberarsi / dall’avarizia esatta che ci produce, che me produce seduta / nell’angolo di un bar / ad aspettare con passione impiegatizia / il momento preciso nel quale / il focarello azzurro degli occhi…/ pretenderà un rossore / dal mio viso. E un rossore otterrà’.

Una storia d’amore è sempre vincolante, prenderci cura dell’altra persona ci toglie spazi, limita la nostra libertà; ma la ‘passione impiegatizia’ che rivela un’anima scontrosa deve cedere: saranno gli occhi desiderosi della persona che abbiamo scelto al nostro fianco a reclamare il nostro slancio. Nella descrizione del sentimento è irrilevante che l’essere amato sia una donna: la più grande libertà è quella di raccontare un amore omosessuale senza inserire nessuna cautela o giustificazione.

In uno dei messaggi più belli che sono stati pubblicati in questi giorni Patrizia Cavalli viene definita ‘maestra di fioriture’, un grande albero sotto la cui ombra ci siamo riparati e il cui polline ha rigenerato il nostro spirito:

‘Bene, vediamo un po’ come fiorisci, / come ti apri, di che colore hai i petali, /
quanti pistilli hai, che trucchi usi / per spargere il tuo polline e ripeterti, /
se hai fioritura languida o violenta, / che portamento prendi, dove inclini, /
se nel morire infradici o insecchisci, / avanti su, io guardo, tu fiorisci’.

Versificazione pacata che non ci esime dal pensare e sentire profondamente:

‘Pensiero che non sente / non pensa veramente. / Solo un forte sentire / lo costringe a capire / la necessaria verità presente’.

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Le mie poesie non cambieranno il mondo. Omaggio a Patrizia Cavalli

Esordisce con questo titolo nel 1974 Patrizia Cavalli, la ‘poeta’, come amava definirsi lei, venuta a mancare nel giorno del solstizio d’estate.

Il nome della sua prima raccolta sembra esprimere un comune sentire di quegli anni, quando altri autori come Montale, Attilio Bertolucci e Pasolini sono consapevoli che la società di massa con i giornali, la tv e il continuo mescolare le regole dell’arte con quelle della comunicazione mette in crisi la cultura umanistica e soprattutto la poesia: in una società in cui la comunicazione avviene in modo istantaneo e superficiale, rapido e facile e, perché no, anche divertente, è illusorio continuare a credere che la lingua speciale della poesia sia più potente e popolare di film e canzoni, più interessante delle arti di massa e della lotta politica.

A chi chiede se abbia ancora senso scrivere versi, Patrizia Cavalli reagisce con rinnovata fiducia nella forza del ritmo; continua a credere che la poesia non possa finire, perché c’è sempre stata e non smette di essere un’esigenza umana fondamentale e fuori dal tempo, e sceglie la strada dell’immediatezza e di un linguaggio semplice, diretto, addirittura parlato:

‘Qualcuno mi ha detto / che certo le mie poesie / non cambieranno il mondo. / Io rispondo che certo sì / le mie poesie / non cambieranno il mondo’.

A chi dunque le contestasse la validità dei suoi versi, è come se rispondesse: “E allora?”, in modo semplice e diretto, uno stile che l’ha fatta apprezzare dal pubblico, ma la cui ‘facilità’ è solo apparente e frutto di maestria.

La poesia non può certo risolvere i problemi degli uomini, ma può essere, almeno per chi la pratica e per i fruitori, una promessa di felicità.

‘A me la poesia serve per essere immortale. Non certo nel senso dei posteri, per carità. Mi salva dal tempo, mi restituisce l’interezza, scorre la mia anima. E’ l’unica cosa che riesco a fare senza sofferenza’.

I suoi versi sono espressione diretta e partecipe di un’esperienza vissuta. Si strutturano intorno a scene quotidiane, con personaggi che agiscono e parlano, in un modo perfettamente comprensibile al lettore: gli scombussolamenti del cuore, l’invecchiamento, l’inesorabile mutare della nostra realtà.

‘Addosso al viso mi cadono le notti / e anche i giorni mi cadono sul viso. / Io li vedo come si accavallano / formando geografie disordinate: / il loro peso non è sempre uguale, / a volte cadono dall’alto e fanno buche…’

L’autrice osserva le trasformazioni del suo volto, come fosse un ‘geometra perito’ che con rigore scientifico misura, conta, divide, mentre il tempo crea nuove ombre. Vorrebbe in segretezza distrarsi, ‘nella confusione perdere i calcoli, / uscire di prigione / ricevere la grazia di una nuova faccia’: vorrebbe approfittare di una distrazione, sfuggire all’esattezza e fermare la decadenza del corpo.

La caduta dell’io poetico sembra a volte inevitabile, un io non in sintonia con il mondo, imbrigliato in una angosciosa impotenza di agire sulla realtà:

‘Cado e ricado, inciampo e cado, mi alzo / e poi ricado, le ricadute / sono la mia specialità… Grandi equilibri mi circondano / ma non mi reggono, anzi proprio perché io cado / si sorreggono’.

C’è spazio anche per l’amore, quello di una donna in attesa di un incontro che scopre come l’essere innamorati piano piano sciolga rigidità e resistenze e permetta al sentimento di allentare ogni tensione:

‘Ma prima bisogna liberarsi / dall’avarizia esatta che ci produce, che me produce seduta / nell’angolo di un bar / ad aspettare con passione impiegatizia / il momento preciso nel quale / il focarello azzurro degli occhi…/ pretenderà un rossore / dal mio viso. E un rossore otterrà’.

Una storia d’amore è sempre vincolante, prenderci cura dell’altra persona ci toglie spazi, limita la nostra libertà; ma la ‘passione impiegatizia’ che rivela un’anima scontrosa deve cedere: saranno gli occhi desiderosi della persona che abbiamo scelto al nostro fianco a reclamare il nostro slancio. Nella descrizione del sentimento è irrilevante che l’essere amato sia una donna: la più grande libertà è quella di raccontare un amore omosessuale senza inserire nessuna cautela o giustificazione.

In uno dei messaggi più belli che sono stati pubblicati in questi giorni Patrizia Cavalli viene definita ‘maestra di fioriture’, un grande albero sotto la cui ombra ci siamo riparati e il cui polline ha rigenerato il nostro spirito:

‘Bene, vediamo un po’ come fiorisci, / come ti apri, di che colore hai i petali, /
quanti pistilli hai, che trucchi usi / per spargere il tuo polline e ripeterti, /
se hai fioritura languida o violenta, / che portamento prendi, dove inclini, /
se nel morire infradici o insecchisci, / avanti su, io guardo, tu fiorisci’.

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