Mentre tutti parlano di pace e tuttavia le tregue vacillano e la guerra continua, e lo sguardo è pieno di macerie e di morte, il poeta polacco Adam Zagajewski, nato nel 1945 a Leopoli in Ucraina e morto nel 2021 a Cracovia, ci conduce in un viaggio universale attraverso epoche e geografie diverse, evidenziando l’eterna ripetizione della sofferenza umana, la ricerca disperata di un rifugio che tenga lontana la violenza della Storia.
I profughi
Piegati da un peso
che non sempre si vede
avanzano nel fango o nella sabbia del deserto,
chini, affamati,
uomini di poche parole dai pesanti caffetani,
adatti a tutte le stagioni,
donne vecchie dai volti sciupati
che portano qualcosa, un neonato, una lampada
– un ricordo – oppure l’ultimo tozzo di pane.
Può essere la Bosnia, oggi,
la Polonia nel settembre ’39, la Francia
otto mesi più tardi, la Turingia nel ’45,
la Somalia, l’Afghanistan o l’Egitto.
C’è sempre un carro o almeno un carretto,
colmo di tesori (il piumino, la tazza d’argento
e il profumo di casa che presto svanisce),
un’auto senza benzina abbandonata nel fosso,
un cavallo (che sarà tradito), la neve, molta neve,
troppa neve, troppo sole, troppo pioggia,
e quel caratteristico curvarsi,
come verso un altro pianeta, migliore,
con generali meno ambiziosi,
meno cannoni, meno neve, meno vento,
meno Storia (purtroppo un simile pianeta
non esiste, resta solo il curvarsi).
Trascinando i piedi,
vanno lentamente, molto lentamente,
verso il paese da nessuna parte,
verso la città nessuno,
sul fiume mai.
(‘Dalla vita degli oggetti. Poesie 1983 – 2005, traduzione italiana di K. Jaworski, Adelphi 2012)