L’ossessione delle cose. Omaggio a Giovanni Verga

Uno straordinario Michael Douglas nei panni di Gordon Gekko afferma, in una scena cult del film di Olive Stone ‘Wall street’, che “l’avidità è giusta, funziona, penetra e cattura l’essenza dello spirito evolutivo; in tutte le sue forme, di vita, di amore, di sapere e di denaro ha improntato lo slancio in avanti di tutta l’umanità”.

Cento anni prima del discorso dello squalo della finanza, Verga aveva già chiaro che in una società dominata dalla legge economica possono contare solo l’accumulo di beni materiali, la competizione e l’arrampicata sociale.

Ne prende atto, di fronte a quella logica del mercato imposta a fine ‘800 dalla borghesia che sostituisce al potere i nobili latifondisti. Ne prende atto, ma intuisce il limite dell’individualismo borghese che, riducendo la vita all’aspetto economico, non riesce a trovare significati e valori forti.

Se meriti come onestà, disinteresse e altruismo sono impraticabili in una società in cui domina il tornaconto, e non bastano a salvare i Malavoglia dalla rovina, è con i personaggi di Mazzarò e Mastro – don Gesualdo che questa logica diventa modello unico di comportamento. Siamo tra il 1883 e il 1889.

Mazzarò, protagonista della novella ‘La roba’, è un uomo scaltro e intelligente, ‘una testa di brillante’: da umile bracciante alle dipendenze di un barone, a furia di sacrifici e rinunce diventa un grande proprietario di terre dalla vastità incalcolabile; proprio lui che un tempo zappava ‘per quelli che ora gli davano dell’eccellenza e prima lo prendevano a calci’.

‘Di chi è qui? – Tutta roba di Mazzarò; pareva che fosse di Mazzarò perfino il sole che tramontava, e le cicale che ronzavano, e gli uccelli, e il sibilo dell’assiuolo nel bosco. Pareva che Mazzarò fosse disteso tutto grande per quanto era grande la terra, e che gli si camminasse sulla pancia’.

Alla roba Mazzarò ha sacrificato la fatica e gli affetti: è un uomo solo. Si ciba con poco, non beve e non fuma, nonostante produca vini pregiati e il tabacco migliore; il denaro che guadagna lo investe nell’accumulo ossessivo di beni; rimpiange persino di aver speso ‘12 tarì, per aver dovuto far portare la madre al camposanto’.

Ricorda il vecchio Ladà, personaggio di ‘Cristo di nuovo in croce’ di Nikos Kazantzakis, che aveva lasciato morire una figlia per non aver chiamato il medico a curarla: ‘Troppe spese’, e, dopo la sua morte, ‘aveva calcolato quello che avrebbe risparmiato in dote, vestiti e pranzo di nozze’.

Il mito della roba però, non può dare senso alla vita, è debole e precario e rivela la sua insensatezza. Non si è mai fermato, Mazzarò, a godere dei suoi beni, e non ha fatto i conti con il tempo che passa, ma non può eludere il confronto con la vecchiaia e la morte, che azzera tutto.

Epica la parabola della sua vita, grottesca la conclusione di un’esistenza consacrata ad un obiettivo vano: ‘Quando gli dissero che era tempo di lasciare la sua roba, per pensare all’anima, uscì nel cortile come un pazzo, barcollando, e andava ammazzando a colpi di bastone le sue anitre e i suoi tacchini, e strillava: ‘Roba mia, vientene con me!’.

Dopo di lui, Verga indaga ancora sulla possibilità di un mutamento del proprio destino da parte dell’uomo, di un miglioramento del proprio stato, con il personaggio di Gesualdo Motta: ad un determinato e quasi patologico impeto all’accumulo si affianca il bisogno di creare legami affettivi, ma la famiglia che Gesualdo forma non è con la donna da cui ha avuto due figli naturali, bensì con la nobile decaduta Bianca Trao, già incinta di un altro; un matrimonio che è un affare per entrambi.

Ed è nel palazzo di ‘sua’ figlia Isabella e del genero che il protagonista finirà i suoi giorni, malato di cancro e circondato dall’indifferenza di molti, dall’invidia della servitù e dall’ipocrita devozione di quelli che dovrebbero essere gli affetti più cari, in realtà interessati solo al testamento.

Ma è Gesualdo stesso che, pur sentendosi alla fine e roso dal rimorso per i figli mai riconosciuti, più che a loro pensa alle sue tenute, acquistate in anni di fatiche e umiliazioni, enumerandole ognuna per nome quasi fossero persone da cui si stacca con rimpianto e dolore. Muore da solo in piena notte, accompagnato dai lamenti infastiditi di un cameriere costretto ad assisterlo.

E la roba nostra? Che ne è di noi?, figli e nipoti del boom; alle prese con un consumismo che non genera nemmeno più, come negli anni ‘60 del Novecento, un ciclo virtuoso; immersi in una società liquida priva di stabili punti di riferimento, dove le relazioni sono più che mai vacillanti, incerte e volatili.

Mazzarò e Gesualdo sono collocati alla sorgente del fenomeno, le loro scelte erano estreme, ma ancora solo una parte del pensiero dell’epoca; noi ripetiamo all’infinito il rito collettivo di un possesso diventato ostentazione, anche quando non possiamo permettercelo.

Sappiamo che l’uomo non conosce alcuna forma di appagamento, ma abbiamo ridotto questa attitudine quasi esclusivamente al lato materiale della vita, protestiamo un diritto se non otteniamo la soddisfazione di un bisogno superfluo, dimenticando chi non riesce a godere nemmeno di quelli primari.

Anche e soprattutto in questi giorni.

[Immagine: H. Bosch, La morte e l’avaro,1490-1516. National Gallery of Art, Washington DC.]

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L’ossessione delle cose. Omaggio a Giovanni Verga

Uno straordinario Michael Douglas nei panni di Gordon Gekko afferma, in una scena cult del film di Olive Stone ‘Wall street’, che “l’avidità è giusta, funziona, penetra e cattura l’essenza dello spirito evolutivo; in tutte le sue forme, di vita, di amore, di sapere e di denaro ha improntato lo slancio in avanti di tutta l’umanità”.

Cento anni prima del discorso dello squalo della finanza, Verga aveva già chiaro che in una società dominata dalla legge economica possono contare solo l’accumulo di beni materiali, la competizione e l’arrampicata sociale.

Ne prende atto, di fronte a quella logica del mercato imposta a fine ‘800 dalla borghesia che sostituisce al potere i nobili latifondisti. Ne prende atto, ma intuisce il limite dell’individualismo borghese che, riducendo la vita all’aspetto economico, non riesce a trovare significati e valori forti.

Se meriti come onestà, disinteresse e altruismo sono impraticabili in una società in cui domina il tornaconto, e non bastano a salvare i Malavoglia dalla rovina, è con i personaggi di Mazzarò e Mastro – don Gesualdo che questa logica diventa modello unico di comportamento. Siamo tra il 1883 e il 1889.

Mazzarò, protagonista della novella ‘La roba’, è un uomo scaltro e intelligente, ‘una testa di brillante’: da umile bracciante alle dipendenze di un barone, a furia di sacrifici e rinunce diventa un grande proprietario di terre dalla vastità incalcolabile; proprio lui che un tempo zappava ‘per quelli che ora gli davano dell’eccellenza e prima lo prendevano a calci’.

‘Di chi è qui? – Tutta roba di Mazzarò; pareva che fosse di Mazzarò perfino il sole che tramontava, e le cicale che ronzavano, e gli uccelli, e il sibilo dell’assiuolo nel bosco. Pareva che Mazzarò fosse disteso tutto grande per quanto era grande la terra, e che gli si camminasse sulla pancia’.

Alla roba Mazzarò ha sacrificato la fatica e gli affetti: è un uomo solo. Si ciba con poco, non beve e non fuma, nonostante produca vini pregiati e il tabacco migliore; il denaro che guadagna lo investe nell’accumulo ossessivo di beni; rimpiange persino di aver speso ‘12 tarì, per aver dovuto far portare la madre al camposanto’.

Ricorda il vecchio Ladà, personaggio di ‘Cristo di nuovo in croce’ di Nikos Kazantzakis, che aveva lasciato morire una figlia per non aver chiamato il medico a curarla: ‘Troppe spese’, e, dopo la sua morte, ‘aveva calcolato quello che avrebbe risparmiato in dote, vestiti e pranzo di nozze’.

Il mito della roba però, non può dare senso alla vita, è debole e precario e rivela la sua insensatezza. Non si è mai fermato, Mazzarò, a godere dei suoi beni, e non ha fatto i conti con il tempo che passa, ma non può eludere il confronto con la vecchiaia e la morte, che azzera tutto.

Epica la parabola della sua vita, grottesca la conclusione di un’esistenza consacrata ad un obiettivo vano: ‘Quando gli dissero che era tempo di lasciare la sua roba, per pensare all’anima, uscì nel cortile come un pazzo, barcollando, e andava ammazzando a colpi di bastone le sue anitre e i suoi tacchini, e strillava: ‘Roba mia, vientene con me!’.

Dopo di lui, Verga indaga ancora sulla possibilità di un mutamento del proprio destino da parte dell’uomo, di un miglioramento del proprio stato, con il personaggio di Gesualdo Motta: ad un determinato e quasi patologico impeto all’accumulo si affianca il bisogno di creare legami affettivi, ma la famiglia che Gesualdo forma non è con la donna da cui ha avuto due figli naturali, bensì con la nobile decaduta Bianca Trao, già incinta di un altro; un matrimonio che è un affare per entrambi.

Ed è nel palazzo di ‘sua’ figlia Isabella e del genero che il protagonista finirà i suoi giorni, malato di cancro e circondato dall’indifferenza di molti, dall’invidia della servitù e dall’ipocrita devozione di quelli che dovrebbero essere gli affetti più cari, in realtà interessati solo al testamento.

Ma è Gesualdo stesso che, pur sentendosi alla fine e roso dal rimorso per i figli mai riconosciuti, più che a loro pensa alle sue tenute, acquistate in anni di fatiche e umiliazioni, enumerandole ognuna per nome quasi fossero persone da cui si stacca con rimpianto e dolore. Muore da solo in piena notte, accompagnato dai lamenti infastiditi di un cameriere costretto ad assisterlo.

E la roba nostra? Che ne è di noi?, figli e nipoti del boom; alle prese con un consumismo che non genera nemmeno più, come negli anni ‘60 del Novecento, un ciclo virtuoso; immersi in una società liquida priva di stabili punti di riferimento, dove le relazioni sono più che mai vacillanti, incerte e volatili.

Mazzarò e Gesualdo sono collocati alla sorgente del fenomeno, le loro scelte erano estreme, ma ancora solo una parte del pensiero dell’epoca; noi ripetiamo all’infinito il rito collettivo di un possesso diventato ostentazione, anche quando non possiamo permettercelo.

Sappiamo che l’uomo non conosce alcuna forma di appagamento, ma abbiamo ridotto questa attitudine quasi esclusivamente al lato materiale della vita, protestiamo un diritto se non otteniamo la soddisfazione di un bisogno superfluo, dimenticando chi non riesce a godere nemmeno di quelli primari.

Anche e soprattutto in questi giorni.

[Immagine: H. Bosch, La morte e l’avaro,1490-1516. National Gallery of Art, Washington DC.]

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