E’ davanti al Valloncello dell’Albero isolato, il giorno 16 Agosto 1916, che si sono ritrovati i maturandi all’inizio della prova di italiano: il verso scarnificato di Ungaretti racconta di un teatro di guerra brullo e desolato, di ‘budella di macerie’, passaggi stretti come gli intestini che si sono formati per il crollo delle case; il corpo del poeta è lordo del fango dei camminamenti, dove non si compie certo un ‘pellegrinaggio’ verso un luogo sacro, ma si traccia il percorso delle trincee che hanno lasciato un segno indelebile nel paesaggio carsico e sugli altri fronti del primo conflitto mondiale.

Anche se le case vicino al Monte San Michele sono state ripristinate, anche se ‘qualche brandello di muro’ era sopravvissuto al bombardamento di San Martino del Carso, e a partire da quel frammento il poeta era riuscito a ricostruire la memoria delle vittime e dei luoghi, e a sentirsi ‘una docile fibra dell’universo’ nelle acque dell’Isonzo, quelle immagini hanno forgiato il panorama del tempo di guerra.

Allo stesso modo la linea degli ossari di Andrea Zanzotto, nella sua raccolta ‘Il Galateo in bosco’ del 1978, diventa un’allegoria dell’attuale topografia del Montello, del suo terreno tragicamente segnato, dove le tracce impresse dalla catastrofe della guerra si mescolano ai sedimenti dei processi naturali, ai ruderi della Certosa di San Girolamo e dell’Abbazia di sant’Eustachio, alle tracce lasciate nei secoli da chi scelse proprio quella zona, anticamente ricoperta di selve, come luogo di elaborazione letteraria (Giovanni della Casa e il suo ‘Galateo’): “Era proprio quella scandalosa prossimità di materiali animali e vegetali, organici e inorganici, culturali e minerali, a predicare, con mezzi orrendamente persuasivi, la squallida inutilità di tutti i sacrifici umani”.

Perché la Storia del nostro Paese, da ultimo, si converte in una terribile geografia.

“Rivolgersi agli ossari. Non occorre biglietto. / Rivolgersi ai cippi. Con il più disperato rispetto. / Rivolgersi alle osterie. Dove elementi paradisiaci aspettano. / Rivolgersi alle case. Dove l’infinitudine del desìo / (vedila ad ogni chiusa finestra) sta in affitto. / E la radura ha accettato più d’un frondoso colloquio / ormai, dove, ahi, / si esibì la più varia mostra dei sangui / il più mistico circo dei sangui”.

Storie di guerra e natura si intrecciano anche sull’Altipiano di Asiago, di cui Mario Rigoni Stern conosceva ogni pietra e filo d’erba, ne ha percorso i sentieri e visitato i paesi e le cime; sull’Altipiano – diceva- non si dà natura senza Storia, e viceversa, il territorio dei Sette comuni, come la collina e il bosco del Montello, sono paesaggi letteralmente abitati dalla Storia, che persiste non soltanto nei monumenti in memoria, quanto nelle tracce nascoste o affioranti fra gli alberi e le rocce: “dai grovigli di filo spinato pendevano al sole di maggio decine e decine di scheletri e pareva che l’aria li facesse dondolare”.

La narrazione dello scrittore di Asiago si fa ecologica quando è strettamente correlata ad un contesto storico e naturale e descrive gli ambienti come fossero personaggi: nel racconto intitolato ‘Ghiri’ la proliferazione di questi animali è conseguenza di un’alterazione dell’ecosistema provocata dalla guerra, che ha innescato una catena di danni.

“Il fenomeno incominciò nel 1944, quando gli occupanti tedeschi per paura dei partigiani fecero tagliare una grande macchia di bosco ceduo che copriva le pendici verso la pianura, così che lungo la vecchia strada militare apparvero i sassi denudati come fossero le bianche ossa della terra. Gli animali che abitavano quel luogo, per necessità di sopravvivenza, si spostarono nelle abetaie delle montagne e in quel sottobosco ripresero dimora.

Dopo un paio d’anni, verso il 1950, in questi boschi così bene coltivati si incominciarono a notare delle strane e insolite morie: gli abeti più alti e rigogliosi in autunno ingiallivano gli aghi e nell’estate successiva rinsecchivano in piedi restando come scheletri […].

Si capì che la causa dei danni, che veramente stavano diventando preoccupanti per il patrimonio forestale dei comuni, era stata il taglio del ceduo voluto dai tedeschi.

Si, perché i ghiri che sulle pendici verso la pianura si cibavano di noccioline e bacche, e nei folti cespugli erano stati contenuti in numero equilibrato dai loro cacciatori naturali, gufi, volpi, martore, una volta privati del loro habitat erano emigrati nei nostri boschi di conifere […]. Per ristabilire un equilibrio naturale è necessario sparare ai ghiri, interrompendo l’effetto di quella deriva anti-ecologica iniziata con l’abbattimento degli alberi durante la guerra”.

Le storie di guerra non hanno prestato la minima attenzione alla salvaguardia degli animali, anzi, l’uomo li ha sempre utilizzati nei conflitti: “Figuriamoci poi se c’è chi pensa che ci siete anche voi bestie, che guardate uomini e cose con codesti occhi silenziosi, e chi sa come li vedete, e che ne pensate (Pirandello)”.

I fedeli compagni degli alpini, asini e muli, pazienti e testardi, segni affettivi di un mondo contadino fatto di legami intensi con gli elementi della natura, li ritroviamo ai nostri giorni nel tragico scenario del Medio Oriente, nella voce della poetessa israeliana Agi Mishol: “Nessuno lo contò / il piccolo asino / fotografato sotto il titolo. Un asino bianco / dalla vita legata a rottami / e angurie, / certo se ne stette fermo e tranquillo quando gli fissarono al corpo / la sella di dinamite / poi gli assestarono un colpetto sul didietro / e lo spronarono / con un yalla / verso il nemico, / soltanto che allora / in mezzo alla strada / scorse dell’erba verdognola / affiorare in mezzo alle pietre / a causa della quale deviò dalla trama / per brucare, / appartenente solo a se stesso / nel silenzio ticchettante. / Non è scritto chi sparò: /quanti temevano tornasse indietro / o coloro che rifiutavano di ricevere il regalo / ma quando salì al cielo in un turbine / fu innalzato al grado di messia dell’esplosione / e settantadue asine immacolate/ gli leccarono le ferite”.

Mentre l’universo animale è testimone silenzioso e inerme di questa tempesta armata, sull’altro fronte la poetessa palestinese Haya Abu Nasser cerca nel paesaggio i segni della bellezza e della pace perdute: “Non è ancora Primavera / il gelo avanza lentamente / sulla terra ferita / il sole, compagno fugace, si è arreso a un diluvio di pioggia, / la pioggia è mescolata alle lacrime. / Non è ancora Primavera, / e l’inverno è crudele. / Ma i viticci dei giacinti si aprono / tra i muri crepati e / fuori da sotto le tombe, / guidando i piedi sfiniti verso casa. / […] Inseguivamo / i nostri riflessi sul mare di cristallo / mentre i pescatori catturavano il pesce / e i bambini ridevano sulla spiaggia. / Come potrà sbocciare la Primavera / nella nostra terra dilaniata dalla guerra?”.

Proviamo ad avere coraggio in una situazione di simile disperazione, e torniamo a Ungaretti: “Un riflettore / di là / mette un mare nella nebbia”.

Un bagliore di luce, per quanto illusoria è sempre una speranza.

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E’ davanti al Valloncello dell’Albero isolato, il giorno 16 Agosto 1916, che si sono ritrovati i maturandi all’inizio della prova di italiano: il verso scarnificato di Ungaretti racconta di un teatro di guerra brullo e desolato, di ‘budella di macerie’, passaggi stretti come gli intestini che si sono formati per il crollo delle case; il corpo del poeta è lordo del fango dei camminamenti, dove non si compie certo un ‘pellegrinaggio’ verso un luogo sacro, ma si traccia il percorso delle trincee che hanno lasciato un segno indelebile nel paesaggio carsico e sugli altri fronti del primo conflitto mondiale.

Anche se le case vicino al Monte San Michele sono state ripristinate, anche se ‘qualche brandello di muro’ era sopravvissuto al bombardamento di San Martino del Carso, e a partire da quel frammento il poeta era riuscito a ricostruire la memoria delle vittime e dei luoghi, e a sentirsi ‘una docile fibra dell’universo’ nelle acque dell’Isonzo, quelle immagini hanno forgiato il panorama del tempo di guerra.

Allo stesso modo la linea degli ossari di Andrea Zanzotto, nella sua raccolta ‘Il Galateo in bosco’ del 1978, diventa un’allegoria dell’attuale topografia del Montello, del suo terreno tragicamente segnato, dove le tracce impresse dalla catastrofe della guerra si mescolano ai sedimenti dei processi naturali, ai ruderi della Certosa di San Girolamo e dell’Abbazia di sant’Eustachio, alle tracce lasciate nei secoli da chi scelse proprio quella zona, anticamente ricoperta di selve, come luogo di elaborazione letteraria (Giovanni della Casa e il suo ‘Galateo’): “Era proprio quella scandalosa prossimità di materiali animali e vegetali, organici e inorganici, culturali e minerali, a predicare, con mezzi orrendamente persuasivi, la squallida inutilità di tutti i sacrifici umani”.

Perché la Storia del nostro Paese, da ultimo, si converte in una terribile geografia.

“Rivolgersi agli ossari. Non occorre biglietto. / Rivolgersi ai cippi. Con il più disperato rispetto. / Rivolgersi alle osterie. Dove elementi paradisiaci aspettano. / Rivolgersi alle case. Dove l’infinitudine del desìo / (vedila ad ogni chiusa finestra) sta in affitto. / E la radura ha accettato più d’un frondoso colloquio / ormai, dove, ahi, / si esibì la più varia mostra dei sangui / il più mistico circo dei sangui”.

Storie di guerra e natura si intrecciano anche sull’Altipiano di Asiago, di cui Mario Rigoni Stern conosceva ogni pietra e filo d’erba, ne ha percorso i sentieri e visitato i paesi e le cime; sull’Altipiano – diceva- non si dà natura senza Storia, e viceversa, il territorio dei Sette comuni, come la collina e il bosco del Montello, sono paesaggi letteralmente abitati dalla Storia, che persiste non soltanto nei monumenti in memoria, quanto nelle tracce nascoste o affioranti fra gli alberi e le rocce: “dai grovigli di filo spinato pendevano al sole di maggio decine e decine di scheletri e pareva che l’aria li facesse dondolare”.

La narrazione dello scrittore di Asiago si fa ecologica quando è strettamente correlata ad un contesto storico e naturale e descrive gli ambienti come fossero personaggi: nel racconto intitolato ‘Ghiri’ la proliferazione di questi animali è conseguenza di un’alterazione dell’ecosistema provocata dalla guerra, che ha innescato una catena di danni.

“Il fenomeno incominciò nel 1944, quando gli occupanti tedeschi per paura dei partigiani fecero tagliare una grande macchia di bosco ceduo che copriva le pendici verso la pianura, così che lungo la vecchia strada militare apparvero i sassi denudati come fossero le bianche ossa della terra. Gli animali che abitavano quel luogo, per necessità di sopravvivenza, si spostarono nelle abetaie delle montagne e in quel sottobosco ripresero dimora.

Dopo un paio d’anni, verso il 1950, in questi boschi così bene coltivati si incominciarono a notare delle strane e insolite morie: gli abeti più alti e rigogliosi in autunno ingiallivano gli aghi e nell’estate successiva rinsecchivano in piedi restando come scheletri […].

Si capì che la causa dei danni, che veramente stavano diventando preoccupanti per il patrimonio forestale dei comuni, era stata il taglio del ceduo voluto dai tedeschi.

Si, perché i ghiri che sulle pendici verso la pianura si cibavano di noccioline e bacche, e nei folti cespugli erano stati contenuti in numero equilibrato dai loro cacciatori naturali, gufi, volpi, martore, una volta privati del loro habitat erano emigrati nei nostri boschi di conifere […]. Per ristabilire un equilibrio naturale è necessario sparare ai ghiri, interrompendo l’effetto di quella deriva anti-ecologica iniziata con l’abbattimento degli alberi durante la guerra”.

Le storie di guerra non hanno prestato la minima attenzione alla salvaguardia degli animali, anzi, l’uomo li ha sempre utilizzati nei conflitti: “Figuriamoci poi se c’è chi pensa che ci siete anche voi bestie, che guardate uomini e cose con codesti occhi silenziosi, e chi sa come li vedete, e che ne pensate (Pirandello)”.

I fedeli compagni degli alpini, asini e muli, pazienti e testardi, segni affettivi di un mondo contadino fatto di legami intensi con gli elementi della natura, li ritroviamo ai nostri giorni nel tragico scenario del Medio Oriente, nella voce della poetessa israeliana Agi Mishol: “Nessuno lo contò / il piccolo asino / fotografato sotto il titolo. Un asino bianco / dalla vita legata a rottami / e angurie, / certo se ne stette fermo e tranquillo quando gli fissarono al corpo / la sella di dinamite / poi gli assestarono un colpetto sul didietro / e lo spronarono / con un yalla / verso il nemico, / soltanto che allora / in mezzo alla strada / scorse dell’erba verdognola / affiorare in mezzo alle pietre / a causa della quale deviò dalla trama / per brucare, / appartenente solo a se stesso / nel silenzio ticchettante. / Non è scritto chi sparò: /quanti temevano tornasse indietro / o coloro che rifiutavano di ricevere il regalo / ma quando salì al cielo in un turbine / fu innalzato al grado di messia dell’esplosione / e settantadue asine immacolate/ gli leccarono le ferite”.

Mentre l’universo animale è testimone silenzioso e inerme di questa tempesta armata, sull’altro fronte la poetessa palestinese Haya Abu Nasser cerca nel paesaggio i segni della bellezza e della pace perdute: “Non è ancora Primavera / il gelo avanza lentamente / sulla terra ferita / il sole, compagno fugace, si è arreso a un diluvio di pioggia, / la pioggia è mescolata alle lacrime. / Non è ancora Primavera, / e l’inverno è crudele. / Ma i viticci dei giacinti si aprono / tra i muri crepati e / fuori da sotto le tombe, / guidando i piedi sfiniti verso casa. / […] Inseguivamo / i nostri riflessi sul mare di cristallo / mentre i pescatori catturavano il pesce / e i bambini ridevano sulla spiaggia. / Come potrà sbocciare la Primavera / nella nostra terra dilaniata dalla guerra?”.

Proviamo ad avere coraggio in una situazione di simile disperazione, e torniamo a Ungaretti: “Un riflettore / di là / mette un mare nella nebbia”.

Un bagliore di luce, per quanto illusoria è sempre una speranza.

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