Non deve sorprendere che il mare rappresenti l’elemento naturale più ricco di significati; in una storia umana che dagli albori è fatta di migrazioni, mari ed oceani sono diventati un elemento non solo indispensabile per l’esperienza concreta di contatto tra popoli e di esplorazione di luoghi, ma anche per l’elaborazione dell’immaginario: spazio e metafora di movimento, dell’ignoto, della vastità e dell’abisso, dell’avventura e del naufragio, il mare è da sempre e per sempre ambiguo e affascinante.

Lo hanno solcato, ancora prima degli eroi omerici, gli Argonauti, protagonisti di un’impresa inaudita per impadronirsi del vello d’oro nella Colchide: chi li ha visti partire non sperava di vederli tornare, e persino Dante usa quel mito per paragonare il suo stupore di trovarsi di fronte a Dio alla meraviglia di Nettuno quando, dal suo regno nel profondo degli abissi, vede passare la sagoma della nave Argo, la prima a solcare le acque.

Risulta difficile scegliere tra le tante pagine di scrittori e poeti dedicate al fascino del grande blu: viaggi, sgomento e bellezza, isole fantastiche, balene, sfide, corsari e predoni, creature mostruose.

La mia personale avventura attraverso i mari letterari inizia da piccola con l’incontro di un pirata all’arrembaggio: “Sandokan balzò nella baleniera e, con pochi colpi di remo, raggiunse i prahos, che stavano spiegando le loro immense vele. Dalla spiaggia di Mompracem si alzò un immenso grido: ‘Evviva la Tigre della Malesia!’. Le ancore vennero salpate, i legni si slanciarono, e il mare, appena mosso, non opponeva resistenza. Sandokan camminava da prua a poppa con passo nervoso, scrutando l’immensa distesa d’acqua e stringendo con rabbia l’impugnatura della sua splendida scimitarra”.

Sui banchi di scuola poi, il rumore delle onde è risuonato nella melodia dolcissima di un incantesimo, orchestrato dal Sommo poeta; come sarebbe bello se un potente mago trascinasse lui e gli amici Lapo Gianni e Guido Cavalcanti in un interminabile viaggio per mare, isolati da tutti e assorti in conversazioni d’amicizia e d’amore: “Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io / fossimo presi per incantamento, / e messi in un vasel ch’ad ogni vento / per mare andasse al voler vostro e mio, / sì che fortuna od altro tempo rio / non ci potesse dare impedimento, / anzi, vivendo sempre in un talento, / di stare insieme crescesse ’l disio”.

E come non scorgere, guardando dalla spiaggia uno spicchio di acqua salata, il montaliano “palpitare di scaglie di mare”, in attesa di qualche miracolosa epifania che ci liberi dall’inesorabile uniformità della prigione esistenziale. Il Mediterraneo di Eugenio Montale non è solo quello di Monterosso nelle Cinque Terre dove trascorreva da bambino le vacanze estive; è pienezza di vita, somiglianza tra onde diverse e molteplici esperienze di vita, poi diventa presa di distanza da un paesaggio dell’anima non più accessibile con l’ingresso nell’età adulta.

“Antico, sono ubriacato dalla voce ch’esce dalle tue bocche / quando si schiudono come verdi campane / e si ributtano indietro e si disciolgono. / La casa delle mie estati lontane, / t’era accanto, lo sai, / là nel paese dove il sole cuoce / e annuvolano l’aria le zanzare. / Come allora oggi in tua presenza impietro, mare, / ma non più degno / mi credo del solenne ammonimento / del tuo respiro. Tu m’hai detto primo / che il piccino fermento del mio cuore / non era che un momento del tuo; che mi era in fondo la tua legge rischiosa: / esser vasto e diverso / e svuotarmi così d’ogni lordura / come tu fai che sbatti sulle sponde / tra sugheri alghe asterie / le inutili macerie del tuo abisso”.

E siccome la mia penna sta seguendo in questa scrittura la strada tracciata dagli autori del cuore, non può non trascrivere quello che l’occhio acuto e curioso di Simenon ha registrato nel resoconto di una crociera attraverso il mare nostrum, da Porquerolles alla Tunisia passando per l’Elba, Siracusa, Messina, Malta: “Per molti il Mediterraneo è la scia grigia di un motoscafo, bagnanti in costume sulla spiaggia, giocatori nei casinò, pescatori nei porti, uomini vestiti di bianco sugli yacht, turisti sballottati da un monumento all’altro, e in lontananza una nave che passa. […] Il Mediterraneo sono anche i mercanti ebrei, armeni e greci che hanno botteghe dappertutto. E’ anche la gente che muore di fame”.

Si muore nel Mediterraneo, soprattutto se ci si imbarca per sfuggire alla morte portata da guerre, povertà e malattie e si finisce travolti dalla stessa tempesta che secoli fa Virgilio ha raccontato nell’Eneide: “I remi si spezzano, la prua si rivolta, offre alle onde il fianco: gli corre incontro il monte d’acqua scrosciando. Pendono questi in vetta al flutto, a quelli l’onda, che piomba, apre tra i flutti la terra, schiuma e sabbia ribollono. Tre navi il Noto afferrando, su scogli insidiosi le getta, tre l’Euro dall’alto spinge alle Sirti sabbiose, spettacolo degno di pianto, in mezzo alle secche le caccia, le stringe una morsa d’arena. Una, enorme piombando, un maroso investe a poppa: ne balza via il timoniere e a capofitto precipita; l’onda tre volte fa roteare la nave, il vortice avido l’inghiotte nel mare. Si vedono corpi nuotare dispersi per il gorgo funesto, le navi tutte, sconnesso il fasciame, accolgono l’acqua nemica, le falle s’allargano”.

Ma nessuno più è Enea, nessuno più può dirsi predestinato ad una fama gloriosa. Ci si dimentica anzi in fretta dei tanti naufragi.

Al dramma odierno delle migrazioni che si unisce alla memoria di navigazioni e naufragi del passato è dedicato “L’Ultimo viaggio di Sindbad”, la nuova produzione della compositrice italiana Silvia Colasanti, in scena al Teatro dell’opera di Roma. Il prologo si apre così: “Non fu il mare a raccoglierci: / noi raccogliemmo il mare a braccia aperte. / Calati da altopiani incendiati da guerre, / traversammo i deserti del Tropico del Cancro. / Veniamo dal parallelo grande, / dall’equatore centro della terra. / L’acqua sopra una spalla, il fagotto sull’altra – mantello, camicia e libro di preghiere. / Già prima di vederlo, il mare era un odore. / Ognuno immaginava di che forma. / Sarà una mezzaluna coricata? / Sarà come il tappeto di preghiera? / Sarà come i capelli di una madre? / È finita l’Africa. È iniziato il mare”.

Su un’altra riva dello stesso mare una cronologia di sangue e macerie scandisce il nostro tempo dall’ottobre scorso, a rendere questo mondo un posto non più sicuro e mai in pace.

Solo Verga mi restituisce un’illusoria immagine di serenità: “Il mare non ha paese nemmeno lui ed è di tutti quelli che lo stanno ad ascoltare di qua e di là dove nasce e muore il sole.”

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Non deve sorprendere che il mare rappresenti l’elemento naturale più ricco di significati; in una storia umana che dagli albori è fatta di migrazioni, mari ed oceani sono diventati un elemento non solo indispensabile per l’esperienza concreta di contatto tra popoli e di esplorazione di luoghi, ma anche per l’elaborazione dell’immaginario: spazio e metafora di movimento, dell’ignoto, della vastità e dell’abisso, dell’avventura e del naufragio, il mare è da sempre e per sempre ambiguo e affascinante.

Lo hanno solcato, ancora prima degli eroi omerici, gli Argonauti, protagonisti di un’impresa inaudita per impadronirsi del vello d’oro nella Colchide: chi li ha visti partire non sperava di vederli tornare, e persino Dante usa quel mito per paragonare il suo stupore di trovarsi di fronte a Dio alla meraviglia di Nettuno quando, dal suo regno nel profondo degli abissi, vede passare la sagoma della nave Argo, la prima a solcare le acque.

Risulta difficile scegliere tra le tante pagine di scrittori e poeti dedicate al fascino del grande blu: viaggi, sgomento e bellezza, isole fantastiche, balene, sfide, corsari e predoni, creature mostruose.

La mia personale avventura attraverso i mari letterari inizia da piccola con l’incontro di un pirata all’arrembaggio: “Sandokan balzò nella baleniera e, con pochi colpi di remo, raggiunse i prahos, che stavano spiegando le loro immense vele. Dalla spiaggia di Mompracem si alzò un immenso grido: ‘Evviva la Tigre della Malesia!’. Le ancore vennero salpate, i legni si slanciarono, e il mare, appena mosso, non opponeva resistenza. Sandokan camminava da prua a poppa con passo nervoso, scrutando l’immensa distesa d’acqua e stringendo con rabbia l’impugnatura della sua splendida scimitarra”.

Sui banchi di scuola poi, il rumore delle onde è risuonato nella melodia dolcissima di un incantesimo, orchestrato dal Sommo poeta; come sarebbe bello se un potente mago trascinasse lui e gli amici Lapo Gianni e Guido Cavalcanti in un interminabile viaggio per mare, isolati da tutti e assorti in conversazioni d’amicizia e d’amore: “Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io / fossimo presi per incantamento, / e messi in un vasel ch’ad ogni vento / per mare andasse al voler vostro e mio, / sì che fortuna od altro tempo rio / non ci potesse dare impedimento, / anzi, vivendo sempre in un talento, / di stare insieme crescesse ’l disio”.

E come non scorgere, guardando dalla spiaggia uno spicchio di acqua salata, il montaliano “palpitare di scaglie di mare”, in attesa di qualche miracolosa epifania che ci liberi dall’inesorabile uniformità della prigione esistenziale. Il Mediterraneo di Eugenio Montale non è solo quello di Monterosso nelle Cinque Terre dove trascorreva da bambino le vacanze estive; è pienezza di vita, somiglianza tra onde diverse e molteplici esperienze di vita, poi diventa presa di distanza da un paesaggio dell’anima non più accessibile con l’ingresso nell’età adulta.

“Antico, sono ubriacato dalla voce ch’esce dalle tue bocche / quando si schiudono come verdi campane / e si ributtano indietro e si disciolgono. / La casa delle mie estati lontane, / t’era accanto, lo sai, / là nel paese dove il sole cuoce / e annuvolano l’aria le zanzare. / Come allora oggi in tua presenza impietro, mare, / ma non più degno / mi credo del solenne ammonimento / del tuo respiro. Tu m’hai detto primo / che il piccino fermento del mio cuore / non era che un momento del tuo; che mi era in fondo la tua legge rischiosa: / esser vasto e diverso / e svuotarmi così d’ogni lordura / come tu fai che sbatti sulle sponde / tra sugheri alghe asterie / le inutili macerie del tuo abisso”.

E siccome la mia penna sta seguendo in questa scrittura la strada tracciata dagli autori del cuore, non può non trascrivere quello che l’occhio acuto e curioso di Simenon ha registrato nel resoconto di una crociera attraverso il mare nostrum, da Porquerolles alla Tunisia passando per l’Elba, Siracusa, Messina, Malta: “Per molti il Mediterraneo è la scia grigia di un motoscafo, bagnanti in costume sulla spiaggia, giocatori nei casinò, pescatori nei porti, uomini vestiti di bianco sugli yacht, turisti sballottati da un monumento all’altro, e in lontananza una nave che passa. […] Il Mediterraneo sono anche i mercanti ebrei, armeni e greci che hanno botteghe dappertutto. E’ anche la gente che muore di fame”.

Si muore nel Mediterraneo, soprattutto se ci si imbarca per sfuggire alla morte portata da guerre, povertà e malattie e si finisce travolti dalla stessa tempesta che secoli fa Virgilio ha raccontato nell’Eneide: “I remi si spezzano, la prua si rivolta, offre alle onde il fianco: gli corre incontro il monte d’acqua scrosciando. Pendono questi in vetta al flutto, a quelli l’onda, che piomba, apre tra i flutti la terra, schiuma e sabbia ribollono. Tre navi il Noto afferrando, su scogli insidiosi le getta, tre l’Euro dall’alto spinge alle Sirti sabbiose, spettacolo degno di pianto, in mezzo alle secche le caccia, le stringe una morsa d’arena. Una, enorme piombando, un maroso investe a poppa: ne balza via il timoniere e a capofitto precipita; l’onda tre volte fa roteare la nave, il vortice avido l’inghiotte nel mare. Si vedono corpi nuotare dispersi per il gorgo funesto, le navi tutte, sconnesso il fasciame, accolgono l’acqua nemica, le falle s’allargano”.

Ma nessuno più è Enea, nessuno più può dirsi predestinato ad una fama gloriosa. Ci si dimentica anzi in fretta dei tanti naufragi.

Al dramma odierno delle migrazioni che si unisce alla memoria di navigazioni e naufragi del passato è dedicato “L’Ultimo viaggio di Sindbad”, la nuova produzione della compositrice italiana Silvia Colasanti, in scena al Teatro dell’opera di Roma. Il prologo si apre così: “Non fu il mare a raccoglierci: / noi raccogliemmo il mare a braccia aperte. / Calati da altopiani incendiati da guerre, / traversammo i deserti del Tropico del Cancro. / Veniamo dal parallelo grande, / dall’equatore centro della terra. / L’acqua sopra una spalla, il fagotto sull’altra – mantello, camicia e libro di preghiere. / Già prima di vederlo, il mare era un odore. / Ognuno immaginava di che forma. / Sarà una mezzaluna coricata? / Sarà come il tappeto di preghiera? / Sarà come i capelli di una madre? / È finita l’Africa. È iniziato il mare”.

Su un’altra riva dello stesso mare una cronologia di sangue e macerie scandisce il nostro tempo dall’ottobre scorso, a rendere questo mondo un posto non più sicuro e mai in pace.

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