Leggo con rammarico e perplessità che in una scuola dell’infanzia di Viareggio si era deciso di non celebrare la festa del papà, per non urtare la sensibilità dei bambini orfani o lontani dai loro padri naturali; a Lamezia Terme, per evitare disdicevoli discriminazioni, hanno fatto le cose in grande stile, abolendo non solo la ricorrenza nel giorno di San Giuseppe, ma anche quella della mamma e dei nonni, lasciando così ai bambini la possibilità di esprimere un dono o un pensiero a chi identificano come famiglia.

Sempre che siano davvero in grado e liberi di farlo.

Pur concedendo il beneficio della buona fede a chi prende certe decisioni nel timore di emarginare e penalizzare, mi chiedo a cosa serva mascherare una realtà, per quanto dolorosa o complicata, chiamandola con un altro nome o addirittura negandola.

A fronte di questa complessità, mi chiedo invece se non sia proprio la scuola, soprattutto quella dell’infanzia, a dover contribuire con un percorso di rielaborazione del lutto e di ripensamento delle forme di supporto alle nuove realtà famigliari.

E’ innegabile che oggi la figura paterna è in una profonda fase di trasformazione, complici le famiglie allargate, quelle omogenitoriali, la ridefinizione dei ruoli, la crisi  del padre visto come autorità indiscussa a favore di un rapporto dove dialogo e affetto subentrano al rigore del pater familias: con il rischio però di abdicare alla componente di autorevolezza, fondamentale per la funzione educativa, per diventare amico dei propri figli.

Nella letteratura occidentale siamo di fronte ad un archetipo, che accompagna le nostre esistenze e le pagine degli artisti da Omero ai nostri giorni: il padre ha sovente rappresentato un antagonista rispetto al proprio figlio maschio, che sente il legame con questo genitore come limitante; ucciderlo, metaforicamente, permette di crescere e trovare il proprio posto nel mondo.

Più rare sono le voci femminili che hanno dedicato dei versi ai loro padri, soffermandosi non sui conflitti, ma sulla capacità di manifestare commozione e tenerezza, che nulla tolgono alla virilità maschile. Sibilla Aleramo ci restituisce l’immagine di un papà che si prende cura dei fiori di un giardino tra colori caldi e profumi, con la stessa delicatezza che ha sicuramente usato per i figli:

“Sempre che un giardino m’accolga / io ti riveggo, Padre, fra aiuole, / lievi le mani su corolle e foglie, / vivo riveggo carezzare tralci, / allevi rose e labili campanule,
silenzioso ti smemorano i giacinti, / stai fra colori e caldi aromi, Padre, / solitario trovando, ivi soltanto, / pago e perfetto senso all’esser tuo”.

Se è vero che non ha genere il senso di perdita e di abbandono che in tanti provano quando i  figli reclamano la lor indipendenza, noi femmine sappiamo quanto sia stato complicato per i nostri padri accettare i nostri amori, trasformare e contenere gli abbracci e le carezze per senso del pudore, e alla fine lasciarci andare.

E quanta nostalgia anche noi abbiamo della loro guida sicura e della loro mano:

“Papà, radice e luce, / portami ancora per mano / nell’ottobre dorato / del primo giorno di scuola. / Le rondini partivano, / strillavano: / fra cinquant’anni / ci ricorderai”.

Se per Maria Luisa Spaziani il padre è quella luce e quella mano che ci indicano la strada da percorrere, Patrizia Valduga vive in un doloroso silenzio la morte del  genitore defunto, ma si rammarica soprattutto di essersi troppo presto allontanata da casa e di avergli sottratto il suo affetto:

“Oh padre padre che conosco ora, / soltanto ora dopo tanta vita, / ti prego parlami, parlami ancora: / io fallita come figlia, fuggita / lontano un giorno, e lontana da allora, / non so niente di te, della tua vita, / niente delle tue gioie e degli affanni, / e ho quarant’anni, padre, ho quarant’anni!”.

Alda Merini ci rammenta che un oggetto o un abito conservato tra i ricordi più cari è segno di una vicinanza che niente e nessuno può annullare:

“Un certo pastrano abitò lungo tempo in casa / era un pastrano di lana buona / un pettinato leggero / un pastrano di molte fatture / vissuto e rivoltato mille volte
era il disegno del nostro babbo / la sua sagoma ora assorta ed ora felice. / Appeso a un cappio o al portabiti / assumeva un’aria sconfitta: / traverso quell’antico pastrano / ho conosciuto i segreti di mio padre / vivendoli così, nell’ombra”.

Io non so comporre versi, ma ringrazio il mio papà che, dopo aver svestito i panni di principe azzurro, ha saputo assumersi con naturalezza i compiti di accudimento, concedendo molto del suo tempo alla famiglia e dimostrandomi che si può avere fiducia nel mondo maschile.

Anche se nessun uomo mi ha mai guardata come faceva lui.

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Nel nome del padre

Leggo con rammarico e perplessità che in una scuola dell’infanzia di Viareggio si era deciso di non celebrare la festa del papà, per non urtare la sensibilità dei bambini orfani o lontani dai loro padri naturali; a Lamezia Terme, per evitare disdicevoli discriminazioni, hanno fatto le cose in grande stile, abolendo non solo la ricorrenza nel giorno di San Giuseppe, ma anche quella della mamma e dei nonni, lasciando così ai bambini la possibilità di esprimere un dono o un pensiero a chi identificano come famiglia.

Sempre che siano davvero in grado e liberi di farlo.

Pur concedendo il beneficio della buona fede a chi prende certe decisioni nel timore di emarginare e penalizzare, mi chiedo a cosa serva mascherare una realtà, per quanto dolorosa o complicata, chiamandola con un altro nome o addirittura negandola.

A fronte di questa complessità, mi chiedo invece se non sia proprio la scuola, soprattutto quella dell’infanzia, a dover contribuire con un percorso di rielaborazione del lutto e di ripensamento delle forme di supporto alle nuove realtà famigliari.

E’ innegabile che oggi la figura paterna è in una profonda fase di trasformazione, complici le famiglie allargate, quelle omogenitoriali, la ridefinizione dei ruoli, la crisi  del padre visto come autorità indiscussa a favore di un rapporto dove dialogo e affetto subentrano al rigore del pater familias: con il rischio però di abdicare alla componente di autorevolezza, fondamentale per la funzione educativa, per diventare amico dei propri figli.

Nella letteratura occidentale siamo di fronte ad un archetipo, che accompagna le nostre esistenze e le pagine degli artisti da Omero ai nostri giorni: il padre ha sovente rappresentato un antagonista rispetto al proprio figlio maschio, che sente il legame con questo genitore come limitante; ucciderlo, metaforicamente, permette di crescere e trovare il proprio posto nel mondo.

Più rare sono le voci femminili che hanno dedicato dei versi ai loro padri, soffermandosi non sui conflitti, ma sulla capacità di manifestare commozione e tenerezza, che nulla tolgono alla virilità maschile. Sibilla Aleramo ci restituisce l’immagine di un papà che si prende cura dei fiori di un giardino tra colori caldi e profumi, con la stessa delicatezza che ha sicuramente usato per i figli:

“Sempre che un giardino m’accolga / io ti riveggo, Padre, fra aiuole, / lievi le mani su corolle e foglie, / vivo riveggo carezzare tralci, / allevi rose e labili campanule,
silenzioso ti smemorano i giacinti, / stai fra colori e caldi aromi, Padre, / solitario trovando, ivi soltanto, / pago e perfetto senso all’esser tuo”.

Se è vero che non ha genere il senso di perdita e di abbandono che in tanti provano quando i  figli reclamano la lor indipendenza, noi femmine sappiamo quanto sia stato complicato per i nostri padri accettare i nostri amori, trasformare e contenere gli abbracci e le carezze per senso del pudore, e alla fine lasciarci andare.

E quanta nostalgia anche noi abbiamo della loro guida sicura e della loro mano:

“Papà, radice e luce, / portami ancora per mano / nell’ottobre dorato / del primo giorno di scuola. / Le rondini partivano, / strillavano: / fra cinquant’anni / ci ricorderai”.

Se per Maria Luisa Spaziani il padre è quella luce e quella mano che ci indicano la strada da percorrere, Patrizia Valduga vive in un doloroso silenzio la morte del  genitore defunto, ma si rammarica soprattutto di essersi troppo presto allontanata da casa e di avergli sottratto il suo affetto:

“Oh padre padre che conosco ora, / soltanto ora dopo tanta vita, / ti prego parlami, parlami ancora: / io fallita come figlia, fuggita / lontano un giorno, e lontana da allora, / non so niente di te, della tua vita, / niente delle tue gioie e degli affanni, / e ho quarant’anni, padre, ho quarant’anni!”.

Alda Merini ci rammenta che un oggetto o un abito conservato tra i ricordi più cari è segno di una vicinanza che niente e nessuno può annullare:

“Un certo pastrano abitò lungo tempo in casa / era un pastrano di lana buona / un pettinato leggero / un pastrano di molte fatture / vissuto e rivoltato mille volte
era il disegno del nostro babbo / la sua sagoma ora assorta ed ora felice. / Appeso a un cappio o al portabiti / assumeva un’aria sconfitta: / traverso quell’antico pastrano / ho conosciuto i segreti di mio padre / vivendoli così, nell’ombra”.

Io non so comporre versi, ma ringrazio il mio papà che, dopo aver svestito i panni di principe azzurro, ha saputo assumersi con naturalezza i compiti di accudimento, concedendo molto del suo tempo alla famiglia e dimostrandomi che si può avere fiducia nel mondo maschile.

Anche se nessun uomo mi ha mai guardata come faceva lui.

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