Omaggio a Giovanni Pascoli

Nella notte tra il 14 e 15 Aprile del 1912 affondò il celebre transatlantico Titanic, trascinando con sè nel naufragio, oltre alle 1518 vittime, l’ottimismo della scienza positivistica e le sirene di un progresso sentito come inarrestabile e garante di sapere e benessere per tutti.

Qualche anno prima Giovanni Verga faceva naufragare tra le pagine di un romanzo la Provvidenza, la barca dei Malavoglia che, spinti dalla smania tutta moderna del benessere materiale, si erano trasformati da pescatori in commercianti, andando incontro alla rovina. Verga certo era un conservatore, ma aveva intuito che il progresso è grandioso visto nel suo insieme, però cela avidità, ambizioni ed egoismi: il grande processo di trasformazione è come una fiumana che tutto travolge e lascia indietro i vinti, a fare i conti con impotenza e fragilità.

Ancora prima di lui nemmeno Leopardi si era lasciato sedurre dall’ottimismo del ‘secol superbo e sciocco’, restando un profeta inascoltato, ma ben consapevole che il progresso non coincide con la felicità, preclusa all’essere umano.

Ad infrangersi quella notte contro un iceberg furono i sogni della belle époque, l’abisso che inghiottì la nave preannunciava quello in cui sarebbe precipitato il secolo più violento della Storia.

Qualche giorno prima del naufragio, il 6 Aprile, moriva a Bologna Giovanni Pascoli: cantore della natura e della salvaguardia della piccola proprietà rurale, osservava con perplessità mista a terrore l’avanzare della civiltà industriale e della società di massa urbanizzata; il progresso per lui non garantisce sicurezza, bensì espone l’uomo a nuovi pericoli e smarrimenti, ma soprattutto non cancella la sofferenza inspiegabile che domina ‘questo atomo opaco di male’ che è il mondo.

Non fece in tempo a sapere del viaggio del Titanic, ma conosceva bene la realtà dolorosa e lacerante degli emigranti che attraversavano l’ Atlantico in cerca di fortuna in America: tra la fine dell’800 e l’inizio del nuovo secolo furono 5 milioni gli italiani che, a causa della crisi agraria, abbandonarono il paese, e poi ancora l’esodo proseguì in età giolittiana. A loro Pascoli dedicò il poemetto ‘Italy’.

Ghita, Joe e la piccola Molly sono tre emigrati toscani di Caprona, che vengono da Cincinnati in visita al loro paese natale, nella speranza che il cambiamento di clima favorisca la guarigione della bambina, malata di tubercolosi, per poi ritornare a breve nel Nord America.

‘Ai ritornanti per la lunga via, / già vicini all’antico focolare, / la lor chiesa sonò l’Avemaria. / Erano stanchi! Avean passato il mare!’

Il testo è un capolavoro di sperimentazione linguistica, teso a manipolare lo strumento espressivo in forme del tutto inedite in poesia. La piccola Molly, ‘nata là’, non parla italiano; la nonna ha dimestichezza solo col dialetto della Garfagnana, cosa che genera equivoci: mentre la bimba esprime un commento negativo sulla casa, che le sembra ‘a chiken house – for mice and rats’ (un pollaio per sorci e ratti), la nonna percepisce suoni cinguettanti e vezzeggia la nipotina paragonandola a un tenero uccellino, un luì.

Col tempo si instaura un profondo legame affettivo tra le due, che consente a Molly di aiutare la nonna al telaio, di imparare dalla sua voce la bellezza degli antichi valori della società contadina, di riconoscere i parenti e di scoprire le proprie radici: al momento di ripartire, ai bambini che le chiedono se tornerà, risponde ‘sì’, in italiano.

Gli emigrati a loro volta parlano un gergo meticcio, un impasto di lingua di origine e di inglese semplificato: bisini per business, chance diventa cianza, ticket ticchetta, il gelato ice cream si trasforma in scrima, il battello a vapore su cui hanno viaggiato, steamer, è lo stima. Le parole del dialetto contadino evocano invece l’immagine rassicurante del nido di origine: borracciol (strofinaccio), accallato (socchiuso), molgere (mungere), pannelletto (grembiule), fuscelli e canapugli (ramoscelli e fusti di canapa).

Il poeta descrive un’Italia proletaria, che non riesce a sfamare i suoi figli, costretti ad un traumatico sradicamento; tornati per poco in patria, gli emigrati, ormai adattatisi ad uno stile di vita diverso e più moderno, là nella ‘Merica’, non riescono a riambientarsi con facilità, anche se il sogno è quello di rimettere insieme il loro ‘nido’.

Oggi la situazione è capovolta: l’Italia è diventata una terra di accoglienza e immigrazione, ma le dinamiche di fondo non cambiano: lo sradicamento è anche esilio linguistico. Dove la propria lingua è considerata straniera, si vive spaesati.

La vera integrazione sociale passa inevitabilmente per quella linguistica.

[Immagine: il manoscritto del testo di ‘Italy’(Archivio Pascoli, Castelvecchio)]

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Ogni mare ha un’altra riva

Omaggio a Giovanni Pascoli

Nella notte tra il 14 e 15 Aprile del 1912 affondò il celebre transatlantico Titanic, trascinando con sè nel naufragio, oltre alle 1518 vittime, l’ottimismo della scienza positivistica e le sirene di un progresso sentito come inarrestabile e garante di sapere e benessere per tutti.

Qualche anno prima Giovanni Verga faceva naufragare tra le pagine di un romanzo la Provvidenza, la barca dei Malavoglia che, spinti dalla smania tutta moderna del benessere materiale, si erano trasformati da pescatori in commercianti, andando incontro alla rovina. Verga certo era un conservatore, ma aveva intuito che il progresso è grandioso visto nel suo insieme, però cela avidità, ambizioni ed egoismi: il grande processo di trasformazione è come una fiumana che tutto travolge e lascia indietro i vinti, a fare i conti con impotenza e fragilità.

Ancora prima di lui nemmeno Leopardi si era lasciato sedurre dall’ottimismo del ‘secol superbo e sciocco’, restando un profeta inascoltato, ma ben consapevole che il progresso non coincide con la felicità, preclusa all’essere umano.

Ad infrangersi quella notte contro un iceberg furono i sogni della belle époque, l’abisso che inghiottì la nave preannunciava quello in cui sarebbe precipitato il secolo più violento della Storia.

Qualche giorno prima del naufragio, il 6 Aprile, moriva a Bologna Giovanni Pascoli: cantore della natura e della salvaguardia della piccola proprietà rurale, osservava con perplessità mista a terrore l’avanzare della civiltà industriale e della società di massa urbanizzata; il progresso per lui non garantisce sicurezza, bensì espone l’uomo a nuovi pericoli e smarrimenti, ma soprattutto non cancella la sofferenza inspiegabile che domina ‘questo atomo opaco di male’ che è il mondo.

Non fece in tempo a sapere del viaggio del Titanic, ma conosceva bene la realtà dolorosa e lacerante degli emigranti che attraversavano l’ Atlantico in cerca di fortuna in America: tra la fine dell’800 e l’inizio del nuovo secolo furono 5 milioni gli italiani che, a causa della crisi agraria, abbandonarono il paese, e poi ancora l’esodo proseguì in età giolittiana. A loro Pascoli dedicò il poemetto ‘Italy’.

Ghita, Joe e la piccola Molly sono tre emigrati toscani di Caprona, che vengono da Cincinnati in visita al loro paese natale, nella speranza che il cambiamento di clima favorisca la guarigione della bambina, malata di tubercolosi, per poi ritornare a breve nel Nord America.

‘Ai ritornanti per la lunga via, / già vicini all’antico focolare, / la lor chiesa sonò l’Avemaria. / Erano stanchi! Avean passato il mare!’

Il testo è un capolavoro di sperimentazione linguistica, teso a manipolare lo strumento espressivo in forme del tutto inedite in poesia. La piccola Molly, ‘nata là’, non parla italiano; la nonna ha dimestichezza solo col dialetto della Garfagnana, cosa che genera equivoci: mentre la bimba esprime un commento negativo sulla casa, che le sembra ‘a chiken house – for mice and rats’ (un pollaio per sorci e ratti), la nonna percepisce suoni cinguettanti e vezzeggia la nipotina paragonandola a un tenero uccellino, un luì.

Col tempo si instaura un profondo legame affettivo tra le due, che consente a Molly di aiutare la nonna al telaio, di imparare dalla sua voce la bellezza degli antichi valori della società contadina, di riconoscere i parenti e di scoprire le proprie radici: al momento di ripartire, ai bambini che le chiedono se tornerà, risponde ‘sì’, in italiano.

Gli emigrati a loro volta parlano un gergo meticcio, un impasto di lingua di origine e di inglese semplificato: bisini per business, chance diventa cianza, ticket ticchetta, il gelato ice cream si trasforma in scrima, il battello a vapore su cui hanno viaggiato, steamer, è lo stima. Le parole del dialetto contadino evocano invece l’immagine rassicurante del nido di origine: borracciol (strofinaccio), accallato (socchiuso), molgere (mungere), pannelletto (grembiule), fuscelli e canapugli (ramoscelli e fusti di canapa).

Il poeta descrive un’Italia proletaria, che non riesce a sfamare i suoi figli, costretti ad un traumatico sradicamento; tornati per poco in patria, gli emigrati, ormai adattatisi ad uno stile di vita diverso e più moderno, là nella ‘Merica’, non riescono a riambientarsi con facilità, anche se il sogno è quello di rimettere insieme il loro ‘nido’.

Oggi la situazione è capovolta: l’Italia è diventata una terra di accoglienza e immigrazione, ma le dinamiche di fondo non cambiano: lo sradicamento è anche esilio linguistico. Dove la propria lingua è considerata straniera, si vive spaesati.

La vera integrazione sociale passa inevitabilmente per quella linguistica.

[Immagine: il manoscritto del testo di ‘Italy’(Archivio Pascoli, Castelvecchio)]

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