Sappiamo il ruolo che Alessandro Manzoni ha nella storia della nostra lingua letteraria, ma non solo in questa prospettiva ha da sempre sottolineato l’importanza della parola; in quanto uomo, prima ancora che scrittore, avverte la funzione insostituibile di questo strumento, vede chiaramente la responsabilità che ogni individuo si assume nel servirsene per comunicare.
Per questo la parola diviene nel romanzo di Renzo e Lucia uno dei temi portanti, si inserisce nel contrasto tra bene e male: nello sviluppo della storia si ascoltano parole di verità e perdono, ma anche di menzogna ed inganno, che diventano strumento di potere e di sopraffazione: anche attraverso il controllo della parola i personaggi si distinguono in umili e potenti.
Il romanzo che consegna la lingua agli italiani contiene una sottile e corrosiva critica al linguaggio che, tradendo la sua apparente vocazione democratica, diviene subdolo mezzo per sovvertire i valori comuni: i bravi che minacciano don Abbondio sono ‘galantuomini’, galantuomo è definito l’avvocato Azzecca – garbugli, che è un servo del potere, scambia per un bravo Renzo, che chiede invece giustizia per un sopruso subito e, quando tenta di chiarire l’equivoco e dire la verità, viene cacciato di casa e rimproverato di raccontar ‘fandonie’.
I primi due personaggi che compaiono in scena, don Abbondio e Renzo, sono artefice e vittima della manipolazione del linguaggio: siamo di fronte ad una vera e propria sopraffazione da parte di chi ha il controllo delle parole e un grado di cultura maggiore.
Il curato, terrorizzato dalla minaccia di morte ricevuta dagli sgherri di don Rodrigo, non ha intenzione di dire la verità a Renzo, e non ha dubbi di riuscire a tergiversare e a rimandare così le nozze:
“Quello che, per ogni verso, gli parve il meglio o il men male, fu di guadagnar tempo, menando Renzo per le lunghe. Ruminò pretesti da metter in campo; e, benché gli paressero un po’ leggeri, pur s’andava rassicurando col pensiero che la sua autorità li avrebbe fatti parer di giusto peso, e che la sua antica esperienza gli darebbe gran vantaggio sur un giovanetto ignorante”.
Celeberrima la reazione di Renzo, per nulla rassegnato al rinvio del matrimonio e insospettito dalla reticenza del prete, che gli parla in latino di imprecisati adempimenti: “Si piglia gioco di me?” interruppe il giovine. “Che vuol ch’io faccia del suo latinorum?”.
Anche il destino di Gertrude, di non poter decidere interamente secondo la sua volontà, non è che una conseguenza della impossibilità di pronunciare parole proprie: “La nostra infelice era ancor nascosta nel ventre della madre, che la sua condizione era già irrevocabilmente stabilita. Rimaneva soltanto da decidersi se sarebbe un monaco o una monaca; decisione per la quale faceva bisogno non il suo consenso, ma la sua presenza”.
Il principe padre non contempla nemmeno l’ipotesi che la propria parola, unita ad una sapiente strategia di persuasione occulta, possa risultare inefficace: “Nessuno disse mai direttamente a Gertrude: tu devi farti monaca. Era un’idea sottintesa”. La decisione dei genitori di non rivelare il loro intento evita al principe e ai suoi complici il confronto diretto con la verità rivelata dalle parole: dare veste linguistica all’idea, pronunciare la frase taciuta significherebbe esporsi alla verità della sopraffazione che quella frase contiene e rivela: vogliamo che tu ti faccia monaca.
Il potere del principe si manifesta dunque, innanzitutto, tramite una parola di potere che tesse una rete di paure e di sensi di colpa, che hanno la prima ricaduta e la prima manifestazione nella impossibilità, per Gertrude, di pronunciare una parola libera: si deve ritenere che lei non sapesse pronunciare nemmeno quel “no” che è tra i primi termini che i bambini imparano.
Quando la fanciulla scopre che esiste un’altra alternativa di vita, e che per entrare in convento serve il suo consenso, scrive al padre una lettera in cui spiega che quella non è la sua volontà: nessuno le risponde, e anche in casa tutta la famiglia la tiene segregata dalla parola: «I giorni passavano senza che il padre né altri le parlasse della supplica, né della ritrattazione, senza che le venisse fatta proposta nessuna, né con carezze, né con minacce […]. Nessuno le rivolgeva il discorso; e quando essa arrischiava timidamente qualche parola, che non fosse per cosa necessaria, o non attaccava, o veniva corrisposta con uno sguardo distratto, o sprezzante, o severo. […] Se implorava un po’ d’amore, si sentiva subito toccare, in maniera indiretta, ma chiara, quel tasto della scelta dello stato. […] Allora Gertrude […] era costretta di tirarsi indietro […], di rimettersi da sé al suo posto di scomunicata; e per di più, vi rimaneva con una certa apparenza del torto”.
Una tale privazione linguistica costituisce il segno tangibile della privazione degli affetti; se “la sventurata rispose” ad Egidio, è perché Egidio ha la capacità di esercitare la sua seduzione infernale attraverso il linguaggio: “Un giorno osò rivolgerle il discorso”, osa, cioè, fare quello che i famigliari più stretti di Gertrude non avevano mai fatto, educarla attraverso il dialogo, fornendole stimoli alla crescita della persona nella verità e nella libertà.
Gertrude rimane un personaggio tragico, vive perennemente un conflitto tra il libero arbitrio e un destino gia’ segnato: non evolve, nel tentativo di autodeterminarsi la sua parola è sempre dura e rabbiosa, vendicativa.
Giovanni Testori nel 1967 porta in scena il personaggio storico che l’ha ispirata, Marianna de Leyva, immaginando che nell’aldilà, di fronte agli spettri dei responsabili della sua infelicità, cerchi il riscatto nella parola e nella necessità di essere ascoltata: “Eccovi qui, pupazzi senza forma né senso, fantocci di carta, mucchi di polvere e stracci. La notte è scesa un’altra volta su Monza, sul convento, sulla chiesa. Martino de Leyva, signore di Monza, ma soprattutto ladro dei beni e delle proprietà che mi appartenevano di diritto; mi senti, tu che hai calpestato ogni principio di libertà? A te, che non hai avuto nessun pudore di distruggere la mia giovinezza e il mio diritto di essere libera e di volere ciò che la mia natura mi chiedeva; a te che m’hai chiusa nelle quattro stanze di questo convento per potermi defraudare in piena coscienza e in piena coscienza dimenticare, stasera, che torno in questo convento da vincitrice e padrona, io grido: maledetto il giorno in cui hai messo incinta di me mia madre! Quando si accetta di generare, ci si rassegna a quel che viene! Anche a un mostro! Maledetto ogni tuo gesto, compiuto da vivo; e maledetta ogni memoria che, di te defunto, può ancora restare!”
“Compagne e superiore di quello che fu e resterà in eterno la mia prigione, eccovi qui con loro; eccovi qui con tutti i morti del convento, del borgo e dei nostri disperati paesi; larve secche e intirizzite o vermi gonfi del più nauseante putridume. Francesca Imbersaga, tu che tenevi le chiavi del convento e serravi e disserravi le porte dell’inferno, sai dirmi dov’è finita adesso la tua autorità e dove il tuo dominio? Quando mio padre stipulava con il tuo ordine quel contratto infame e ladresco tu eri ben là, nel parlatorio, ed eri ben la superiora del convento. Perché non ti sei alzata e in nome della santità e della giustizia in cui credevi, non hai gridato: vattene ladro! vattene, cane dei tuoi stessi figli! Il convento è luogo di probità e perfezione”.
La monaca di Monza continua a fare i conti con i fantasmi del suo passato.
E non c’e’ possibilita’ di redenzione, Dio e’ distante, muto e non consola.