La poesia non può fermare le bombe, ma sa soccorrere la condizione umana nel momento del bisogno estremo, in cui la ragione finisce le sue possibilità di risposta e occorre usare un altro linguaggio. Se si credeva che un conflitto in Europa fosse anacronistico e se più volte i poeti hanno dubitato di poter levare il loro canto di fronte all’indicibilità degli orrori bellici, in questi giorni in cui non c’è né tempo né spazio per tenersi a distanza dal fuoco, constatiamo che esiste ancora una poetica della guerra.
Il primo pensiero va ai morti, agli orfani, agli amputati, traumatizzati e dimenticati dal mondo, ma un conflitto ha un costo rilevante ed effetti devastanti anche sull’ambiente; non solo, il trauma della guerra è l’atto di nascita di un uomo che non riesce più a percepire l’unità con l’ambiente che lo circonda, il trauma modifica la percezione dello spazio, ed è presente nella concezione del paesaggio che emerge dalla scrittura.
Anzi, proprio alla natura a volte tocca esprimere il nucleo ineffabile della violenza della Storia.
La poesia omerica, che pure è il prodotto di una cultura che celebra l’areté guerriera, immagina la reazione furiosa del fiume Xanto di fronte alla strage di troiani perpetrata da Achille, che arrossa di sangue le sue acque divine: “- Achille, tu commetti nefandezze, le mie correnti amabili sono piene di morti, non posso più versare l’acqua nel mare, tanto sono zeppo di morti; tu massacri funesto, mi fai orrore! – Furioso il fiume si gonfiò, salì, eccitò e intorbidò tutte le onde, spinse i corpi innumerevoli, che erano a mucchi, li gettò fuori”.
Il fiume dell’Iliade pieno di cadaveri riaffiora nelle acque della Neretva, nel 1993 in Bosnia: “Lo Scamandro trascinava carogne, corpi mutilati, resti di case e di villaggi decimati, quel che avevamo visto in Slavonia si estendeva, si amplificava, riecheggiava all’infinito, in una gara di soprusi e crudeltà su serbi, croati, musulmani, russi, greci, arabi, turchi, cattolici”.
Il protagonista del romanzo ‘Zona’ di Mathias Énard, Francis Servain Mirkovic, ha ben presenti i villaggi distrutti della Slavonia, dell’Erzegovina e della Bosnia, un paesaggio diventato apatico e inespressivo, estraneo e inconoscibile, e che nella sua memoria si allarga a comprendere una mappa degli orrori: Spagna, Siria, campi di concentramento di Trieste e di Jasenovac, fino a Treblinka, dal ghetto di Łodź a Gerusalemme.*
Dalla ex Jugoslavia in frantumi Francis arriva al campo di sterminio polacco di Sobibòr, un paesaggio piatto, fitto di betulle e neve: “Un tempo degli sconosciuti venivano a crepare in queste terre fatte per la caccia al daino, per il legno, per la neve, so che gli alberi non parleranno, sprofondo nel bianco fino alle caviglie, avanzo nella foresta, un largo viale conduce a una radura dove si trova una grande cupola di silenzio”.
Il silenzio della natura parla a chi ha la capacità di riconoscere nel tempo e nello spazio la relazione tra sviluppi naturali e azioni umane, ma è sempre più una silenziosa vittima della guerra, il cui impatto sull’ecosistema non finisce con il cessate il fuoco.
L’Ucraina, che ospita il 35% della biodiversità del continente europeo, un patrimonio di zone umide, foreste e steppe vergini, è già al centro di una catastrofe ambientale iniziata con il conflitto del Donbass nel 2014: inquinamento di aria, acqua, suolo, aumento di concentrazione di CO2 in atmosfera, contaminazioni radioattive hanno distrutto habitat ed ecosistemi che non potranno più essere ripristinati, luoghi in cui nessun essere umano potrà vivere per molti anni in condizioni accettabili.
Contemporanea e universale, a restituirci questa dolorosa consapevolezza è ancora la poesia, ultimo rifugio dell’umanità e della natura minacciate nella loro essenza.
Il poeta ucraino Boris Humeniuk con parole brevi e uno stile scarno scrive che è naturale che in guerra muoiano migliaia di civili, non lo sono invece la sofferenza e la morte di altre forme di vita e della stessa terra: “Quando il lanciamissili Grad spara / è naturale che colpisca le camerette / dove dormono i bambini / – certamente se è naturale che ci sia la guerra. / Non è naturale che i missili / cadano nei campi / è assolutamente innaturale guardare come / arde il grano non raccolto / impossibile sentire come squittiscono / e bruciano nelle fiamme le marmotte / e come si disperdono correndo i topi / come le quaglie volteggiano sopra i loro nidi / avvolte dalle fiamme e dalla guerra / come i loro piccini gridano l’aiuto / come smettono di gridare gli uni e gli altri”.
La voce di Lyuba Yakimchuk canta la peculiare bellezza delle albicocche del Donbass, per ricordare come la guerra trasforma il mondo naturale in spazio malvagio: “Gli alberi di albicocche hanno teso le loro mani al cielo / le albicocche hanno messo i cappelli duri, giallo-caldo / e ora quando mangi le albicocche / trovi i carboni dentro […]. Corri / molla tutto quello che hai e corri / lascia la tua casa, la tua cantina con i barattoli di marmellata di albicocche […] Vogliamo tornare a casa, dove abbiamo avuto i nostri primi grigi, / dove il cielo si riversa nella finestra in raggi blu, / dove abbiamo piantato un albero e cresciuto un figlio, / dove abbiamo costruito una casa che è cresciuta ammuffendo senza di noi. / Eppure la strada di ritorno a casa fiorisce di mine”.
Da Kharkiv Serhiy Zhadan compila un nuovo e moderno ‘Catalogo delle navi’, in cui la sfilata degli eroi comprende uccelli e pini: “Ed è il mondo non umano che assiste e piange a gran voce. / La cosa più difficile, naturalmente, è parlare con gli alberi: / è come se tu non dovessi loro nulla / ma qui ti trovi di fronte ai pini, / se distogli lo sguardo, / al ramo nero di un fiume / su cui gli uccelli migratori hanno paura di volare”.
Se oggi, di fronte alla conta dei morti, sembra assurdo e offensivo parlare di alberi, è al verde gentile di una foglia che si può legare una speranza, la foglia di un pioppo che nei versi di Bertolt Brecht diventa possibilità di sopravvivenza alla guerra: “Un pioppo c’è, sulla Karlsplatz, / in mezzo a Berlino, città di rovine, / e chi passa per la Karlsplatz / vede quel verde gentile. / Nell’inverno del Quarantasei / gelavano gli uomini, la legna era rara, / e mai tanti alberi caddero / e fu l’ultimo anno per loro. / Ma sempre il pioppo sulla Karlsplatz / quella sua foglia verde ci mostra: / sia grazie a voi, gente della Karlsplatz / se ancora è nostra”.
*Matteo Giancotti, Paesaggi del trauma, Bompiani 2017