Sono lontani i tempi in cui Teocrito e Virgilio, nei loro idilli bucolici, cantavano di pastori amanti della poesia immersi in una natura rigogliosa e accogliente: quel paesaggio non era solo uno scenario letterario, bensì l’immagine di un mondo in armonia, in cui per gli uomini la natura è prodiga di ogni bene e dolcezze.
‘Sopra di noi stormivano, agitati / dal vento, pioppi e olmi, e lì vicino / una sorgente sacra mormorava / scorrendo dalla grotta delle Ninfe’ (Teocrito, ‘Le Talisie’).
Non è più nemmeno il tempo di rappresentare la natura come marginale e circostante all’uomo, che sia essa il limite alle nostre aspirazioni, crudele matrigna o volto benevolo, in sintonia col nostro animo turbato, che accoglie domande di senso, teatro di metamorfosi panica di dannunziana memoria.
Le temperature roventi di questa torrida estate e la preoccupante siccità che spacca la terra ci costringono a racconti diversi e a riflessioni urgenti: se Teocrito si augurava di poter ‘piantare la mia pala / su cumuli di grano, e lei, la dea, / possa sorridermi tenendo fra le mani / fasci di spighe e mazzi di papaveri’, noi invece siamo sull’orlo di una grave crisi agraria; non si tratta solo della sofferenza delle sorgenti e dell’abbassamento del livello dei fiumi: nel Delta del Po l’inversione di flusso dell’acqua salata dell’Adriatico ha un impatto enorme sull’ecosistema e sull’agricoltura. Difficilmente la dea Cerere ci donerà a fine stagione ‘fasci di spighe’.
Sembra però, che il linguaggio logico della scienza non riesca a fare presa sulla nostra consapevolezza: al di là del negazionismo e della tendenza a rimuovere pericoli e paure, dati, grafici, modelli matematici sono percepiti come ronzio di fondo. Forse abbiamo bisogno di nuovi racconti, perché il nostro cervello ama le storie e perché le narrazioni hanno da sempre hanno guidato la nostra evoluzione.
Abbiamo bisogno della terra, dell’acqua, del vento, dell’erba, ma non possiamo continuare a pensare di esserne i padroni: occorre un nuovo sguardo, una nuova immaginazione.
Il contributo offerto dal discorso letterario non è affatto trascurabile, le risorse retoriche e narrative possono rendere accessibili le previsioni degli scienziati: grafici e statistiche non sanno parlare alle emozioni dei lettori come poesie e romanzi che, come spesso accade, sono profetici in tempi non sospetti.
Nel descrivere la città immaginaria di Leonia, ‘con la sua facciata lucida e perfetta’, Calvino già nel 1972 ce ne rivela la reale ricchezza, che si misura sulla quantità di spazzatura che ogni giorno butta via: la città dello spreco e del consumismo regola la propria vita sull’unico criterio dell’accumulare e dell’eliminare.
E’ poi un poeta a richiamarci alle nostre responsabilità: Giorgio Caproni compone i suoi ‘Versicoli quasi ecologici’, un accorato invito agli uomini a gestire in modo sostenibile le risorse; un atto d’accusa verso l’indifferenza e l’egoismo di chi, per lucro, non pensa alle conseguenze delle proprie scelte; un monito a ricordare che non possiamo fare violenza alla natura senza colpire noi stessi.
‘Non uccidete il mare, / la libellula, il vento /Non soffocate il lamento /(il canto!) del lamantino. […]E chi per profitto vile / fulmina un pesce, un fiume, /non fatelo cavaliere del lavoro’.
Gli uomini sembrano aver dimenticato che il legame con la natura è fondamentale per la sopravvivenza: ‘L’amore / finisce dove finisce l’erba /e l’acqua muore … Chi resta / sospira nel sempre più vasto / paese guasto’.
Per assurdo, l’unica soluzione per la salvaguardia dell’ambiente è la totale scomparsa del genere umano: ‘Come potrebbe tornare a essere bella, / scomparso l’uomo, la terra’.
Per recuperare la simbiosi tra uomo e natura, il poeta contemporaneo Franco Arminio ci mostra quali siano i beni autentici e i comportamenti che accomunano ambiente ed esseri umani: ‘La neve sugli alberi, / il rosso di certe mele / che nessuno raccoglie […] La serena democrazia di certe foglie, / la gentilezza, la clemenza, / la cura di uscire / e guardare il paesaggio. / Questo è il nuovo umanesimo’.
Nel suo racconto ‘Terracarne’, un viaggio a piedi nel Sud, percorre un paese malato e ridotto a discarica, e ci suggerisce una cura: ‘imparare a potare gli alberi, piantarli lungo la tangenziale, fare un caciocavallo, pensare alle fatiche delle formiche, andare dove non passano gli esseri umani: negli abissi marini, sulle vette più impervie’.
Nel frattempo ha preso piede il genere letterario della climate fiction, storie di un mondo che annega e brucia in un’atmosfera distopica di incendi, guerre, pandemie e disinformazione. Anche Calvino immaginava un finale disastroso per la sua Leonia: ‘un cataclisma spianerà la sordida catena montuosa, cancellerà ogni traccia della metropoli sempre vestita a nuovo. Già dalle città vicine sono pronti con rulli compressori per spianare il suolo e allontanare nuovi immondezzai’.
Lo scenario apocalittico non sembra però spaventarci, può funzionare solo se l’umanità è consapevole di dover accettare la sfida. Eppure la catastrofe è iniziata, non possiamo fare finta di non vederla.
Auguriamoci che non diventi realtà quella descritta da Antonio Scurati in ‘La seconda mezzanotte’: in un mondo di devastazione e di apparati statali travolti, la nostra Venezia è stata quasi interamente inghiottita da un’Onda, è nelle mani di una multinazionale cinese e sopra Piazza San Marco incombe un superdome climatizzato. Sono salvi pochi privilegiati e viziosi; nella Venezia semi sommersa e perduta mosche, topi, gerani, gabbiani, rovi tenacemente si riappropriano degli spazi abbandonati dagli uomini.
La Terra ne ha passate tante e sopravviverà. Speriamo di poter dire lo stesso di noi.