Dalla rubrica Vivere di un consumato amore

Nell’elenco delle meraviglie Emily Dickinson li mette al primo posto:

“Reputo – se mai faccio il conto – / Primi – i poeti – poi il Sole – / poi l’Estate – poi il Cielo di Dio – / e poi – l’elenco è chiuso – / Ma, ripensandoci – l’impressione è che i primi / includano talmente tutto – che gli altri sembrano una sfilata inutile – / così scrivo – poeti – e stop”.

Lo dice in modo netto, con uno stile innovativo e così personale che portò la poetessa a rifiutare nel corso della sua vita diverse pubblicazioni, per non modificare i suoi testi secondo le mode del tempo e le richieste degli editori.

Ha vissuto la maggior parte della sua esistenza (1830 – 1886) chiusa nella propria casa, ma nessuno è riuscito a incatenare il suo spirito libero, insofferente alle convenzioni, ai rituali di famiglia, religione e società del Massachusetts abitato da ferventi puritani.

Proprio il classico abito nero puritano è quello che indossa nel suo ritratto più noto, con i capelli ordinatamente divisi in due bande da una rigorosa scriminatura; una severa compostezza che non corrisponde all’immagine di una giovane “piccola come uno scricciolo, con i capelli ribelli, come il riccio della castagna, e gli occhi come il fondo di sherry che l’ospite lascia nel bicchiere”: una descrizione di sé che la poetessa invia al reverendo Thomas Higginson, un suo caro amico che si occupò di pubblicare una prima selezione dei versi nel 1890.

Compita e inamidata nel ritratto, Emily vive di passioni brucianti, viaggia impetuosamente e senza sosta con la mente; la scrittura diventa la via non per la notorietà, bensì per conoscere se stessa e gli altri. Leggere le sue poesie è un’esperienza forte, perché nei suoi versi riconosciamo prima di tutto una personalità risoluta e consapevole, che con parole inappellabili giudica severamente chi, per superficialità o cinismo, delude le speranze degli esseri umani: “Chiunque disincanti /  anche una sola anima umana / per omissione o irriverenza / è colpevole in tutto e per tutto”.

Solo il sentire di uno spirito appassionato e determinato può insorgere e rovesciare in modo spregiudicato le attese, rivendicando in un ambiente perbenista l’indipendenza intellettuale, quanto mai disapprovata in una donna: “Molta pazzia è divino buon senso – / per un occhio avvertito – / molto buon senso – pura pazzia – / E’ la maggioranza / in questo, come in tutto, a prevalere – / Di’ sì – e sei sano – / ribellati – subito sei pericoloso – / e ti trattano con catene”.

Le finestre e le porte dietro alle quali ad un certo punto si chiuse e da cui non volle più uscire, non l’hanno affatto imprigionata, la sua poesia è uno spazio aperto; l’io lirico non ha dubbi, la sua casa è un luogo astratto e coincide con la poesia, è privo di limiti, spalanca orizzonti e dischiude occasioni: “Io abito la Possibilità / Una casa piu’ bella della prosa / piu’ ricca di finestre / più fornita di porte / Con stanze come cedri / inespugnabili allo sguardo / Come tetto infinito / ha la volta del cielo / La visitano ospiti squisiti / La mia sola occupazione / aprire le mani sottili / per accogliervi il Paradiso”.

La casa della poesia oltrepassa anche i confini della realtà: stanze e tetti assumono le dimensioni favolose di alberi giganteschi e immensi cieli, si aprono all’aria e al profumo, si espandono nell’infinito spaziale e temporale. In quella casa nulla si può rinchiudere, chi la occupa non conosce la solitudine, ma vive un’esperienza di compiuta felicità: l’inquilina compie con l’esercizio poetico una scelta di libertà, raccoglie e trattiene nelle sue piccole mani l’infinito.

La stessa audacia di rappresentare idee astratte con elementi concreti la ritroviamo nei versi in cui è raffigurato il concetto di eterno con l’immagine della replicazione del mare dentro il mare: “Come se il mare si potesse aprire / e rivelare al di sotto un altro mare – / e quello – un altro ancora – e tutti e tre / fossero appena una supposizione – / di periodici mari – / non visitati da rive – / confini a loro volta di altri mari – / L’eternità – è questo”.

Per concludere scelgo il testo da me preferito, quello che lascia subito un segno per il suo incipit memorabile: “Portami il tramonto in una tazza / conta le caraffe del mattino / e dimmi quante stillano rugiada / dimmi fin dove arriva il mattino / dimmi fin quando dorme colui che tesse / d’azzurro gli spazi! / Scrivimi quante sono le note / nell’estasi del nuovo pettirosso / tra i rami stupefatti – / quanti passetti fa la tartaruga / quante coppe di rugiada beve l’ape /  dissoluta di rugiada! / E chi gettò i ponti dell’arcobaleno, / chi conduce le docili sfere / con intrecci di tenero azzurro? / Quali dita congiungono le stalattiti, / chi conta le conchiglie della notte / attento che non ne manchi una? / Chi costruì questa casetta bianca / e chiuse così bene le finestre / che non riesco a vedere fuori? / Chi mi farà uscire con quanto mi occorre / in un giorno di gala / per volare via – in pompa magna?”.

Una serie incalzante di interrogazioni a Dio quale artefice del creato, non si sa se in ascolto o assente; domande che non avranno forse risposta, sulla natura, sulla bellezza, sul cosmo e sulla dimensione quotidiana.

E’ con un tono esuberante e giocoso che la poetessa, nella sua condizione di reclusa, allude alla sua casetta bianca dalle finestre serrate, per sapere se la fine della sua vita sarà un giorno di gala, di festa; se potrà volare via, regalandoci un’immagine della morte come liberazione.

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Claudia Cominoli

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Primi, i poeti

Dalla rubrica Vivere di un consumato amore

Nell’elenco delle meraviglie Emily Dickinson li mette al primo posto:

“Reputo – se mai faccio il conto – / Primi – i poeti – poi il Sole – / poi l’Estate – poi il Cielo di Dio – / e poi – l’elenco è chiuso – / Ma, ripensandoci – l’impressione è che i primi / includano talmente tutto – che gli altri sembrano una sfilata inutile – / così scrivo – poeti – e stop”.

Lo dice in modo netto, con uno stile innovativo e così personale che portò la poetessa a rifiutare nel corso della sua vita diverse pubblicazioni, per non modificare i suoi testi secondo le mode del tempo e le richieste degli editori.

Ha vissuto la maggior parte della sua esistenza (1830 – 1886) chiusa nella propria casa, ma nessuno è riuscito a incatenare il suo spirito libero, insofferente alle convenzioni, ai rituali di famiglia, religione e società del Massachusetts abitato da ferventi puritani.

Proprio il classico abito nero puritano è quello che indossa nel suo ritratto più noto, con i capelli ordinatamente divisi in due bande da una rigorosa scriminatura; una severa compostezza che non corrisponde all’immagine di una giovane “piccola come uno scricciolo, con i capelli ribelli, come il riccio della castagna, e gli occhi come il fondo di sherry che l’ospite lascia nel bicchiere”: una descrizione di sé che la poetessa invia al reverendo Thomas Higginson, un suo caro amico che si occupò di pubblicare una prima selezione dei versi nel 1890.

Compita e inamidata nel ritratto, Emily vive di passioni brucianti, viaggia impetuosamente e senza sosta con la mente; la scrittura diventa la via non per la notorietà, bensì per conoscere se stessa e gli altri. Leggere le sue poesie è un’esperienza forte, perché nei suoi versi riconosciamo prima di tutto una personalità risoluta e consapevole, che con parole inappellabili giudica severamente chi, per superficialità o cinismo, delude le speranze degli esseri umani: “Chiunque disincanti /  anche una sola anima umana / per omissione o irriverenza / è colpevole in tutto e per tutto”.

Solo il sentire di uno spirito appassionato e determinato può insorgere e rovesciare in modo spregiudicato le attese, rivendicando in un ambiente perbenista l’indipendenza intellettuale, quanto mai disapprovata in una donna: “Molta pazzia è divino buon senso – / per un occhio avvertito – / molto buon senso – pura pazzia – / E’ la maggioranza / in questo, come in tutto, a prevalere – / Di’ sì – e sei sano – / ribellati – subito sei pericoloso – / e ti trattano con catene”.

Le finestre e le porte dietro alle quali ad un certo punto si chiuse e da cui non volle più uscire, non l’hanno affatto imprigionata, la sua poesia è uno spazio aperto; l’io lirico non ha dubbi, la sua casa è un luogo astratto e coincide con la poesia, è privo di limiti, spalanca orizzonti e dischiude occasioni: “Io abito la Possibilità / Una casa piu’ bella della prosa / piu’ ricca di finestre / più fornita di porte / Con stanze come cedri / inespugnabili allo sguardo / Come tetto infinito / ha la volta del cielo / La visitano ospiti squisiti / La mia sola occupazione / aprire le mani sottili / per accogliervi il Paradiso”.

La casa della poesia oltrepassa anche i confini della realtà: stanze e tetti assumono le dimensioni favolose di alberi giganteschi e immensi cieli, si aprono all’aria e al profumo, si espandono nell’infinito spaziale e temporale. In quella casa nulla si può rinchiudere, chi la occupa non conosce la solitudine, ma vive un’esperienza di compiuta felicità: l’inquilina compie con l’esercizio poetico una scelta di libertà, raccoglie e trattiene nelle sue piccole mani l’infinito.

La stessa audacia di rappresentare idee astratte con elementi concreti la ritroviamo nei versi in cui è raffigurato il concetto di eterno con l’immagine della replicazione del mare dentro il mare: “Come se il mare si potesse aprire / e rivelare al di sotto un altro mare – / e quello – un altro ancora – e tutti e tre / fossero appena una supposizione – / di periodici mari – / non visitati da rive – / confini a loro volta di altri mari – / L’eternità – è questo”.

Per concludere scelgo il testo da me preferito, quello che lascia subito un segno per il suo incipit memorabile: “Portami il tramonto in una tazza / conta le caraffe del mattino / e dimmi quante stillano rugiada / dimmi fin dove arriva il mattino / dimmi fin quando dorme colui che tesse / d’azzurro gli spazi! / Scrivimi quante sono le note / nell’estasi del nuovo pettirosso / tra i rami stupefatti – / quanti passetti fa la tartaruga / quante coppe di rugiada beve l’ape /  dissoluta di rugiada! / E chi gettò i ponti dell’arcobaleno, / chi conduce le docili sfere / con intrecci di tenero azzurro? / Quali dita congiungono le stalattiti, / chi conta le conchiglie della notte / attento che non ne manchi una? / Chi costruì questa casetta bianca / e chiuse così bene le finestre / che non riesco a vedere fuori? / Chi mi farà uscire con quanto mi occorre / in un giorno di gala / per volare via – in pompa magna?”.

Una serie incalzante di interrogazioni a Dio quale artefice del creato, non si sa se in ascolto o assente; domande che non avranno forse risposta, sulla natura, sulla bellezza, sul cosmo e sulla dimensione quotidiana.

E’ con un tono esuberante e giocoso che la poetessa, nella sua condizione di reclusa, allude alla sua casetta bianca dalle finestre serrate, per sapere se la fine della sua vita sarà un giorno di gala, di festa; se potrà volare via, regalandoci un’immagine della morte come liberazione.

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