Dalla rubrica Vivere di un consumato amore

Non mi è mai piaciuto Harry Potter, ma quella di Noya è un’altra storia.

Noya Dan, una bambina autistica di 12 anni grande fan del maghetto di Hogwarts, è rimasta uccisa in seguito all’attacco di Hamas il 7 Ottobre a Kfar Aza e al kibbutz di Nir Oz.

Chissà se la sua nonna, ritrovata anche lei morta abbracciata alla nipote, ha avuto il tempo di levare un lamento come Ecuba sul corpo di Astianatte, scaraventato dai Greci dalle mura di Troia: “O Achei, che menate vanto maggiore di bravura che non di senno, perché avete perpetrato questo crimine inaudito? Per paura di un bambino? Ora che la città è stata presa avete avuto paura di questo bambino? O diletto, qual misera morte ti colse! Ora dalle ossa infrante ride la strage, e non dico l’orrore. O mani, che dolce somiglianza avevate con quelle del padre, eccovi qui, davanti a me, spezzate nelle giunture. O bocca adorata, che pronunziavi parole così fiere, sei spenta. Non tu me seppellisci, ma io, vecchia, senza patria, senza eredi, seppellisco il tuo misero cadavere, te così giovane!”.

Davanti alle macerie che hanno soppiantato le loro case, davanti ai bambini sgozzati e decapitati, chissà se una novella Andromaca ha avuto il coraggio di gridare ai terroristi quello che la moglie di Ettore ha detto ai Greci: “Voi avete inventato un’atrocità da selvaggi, voi uccidete un bambino che non ha colpa di nulla”.

Parole e immagini che avremmo voluto restassero confinate nei versi di Euripide. E invece siamo qui a chiederci chi in un conflitto è il barbaro, chi può dirsi innocente.

L’irruzione nelle case di Kfar Aza però, segna un punto di non ritorno, perché anche la più spietata delle guerre ha le sue regole; se si sgozza un bambino, non si uccide un israeliano, un palestinese, un arabo o un ebreo: la guerra diventa sterminio, chiama rappresaglia e vendetta, e ci si interroga come esseri umani.

Per ciò che è accaduto di folle e irresponsabile, che ha innescato un’inevitabile reazione altrettanto terribile, non vale più la narrazione di un popolo che vive in una terra occupata, di un popolo assediato da paesi ostili che ne assedia e circonda un altro.

Di fronte ai neonati martoriati di Kfar Aza, al massacro dell’ospedale e delle case di Gaza e a tutte le vittime civili, non è lecito fare propaganda, non si può dare spazio al giustificazionismo, non regge l’alibi della complessità di quel mondo: ‘Inorridiamo davanti alla barbarie di Hamas, però…’ è la premessa di un nuovo negazionismo, partito già da Bucha per arrivare a Kfar Aza e approdare alla striscia – prigione di Gaza.

Dovremmo aver imparato alla fine del secondo conflitto mondiale che nessun contesto può legittimare dei crimini.

Noi parliamo, prendiamo posizioni a volte anche discutibili e ipocrite, invochiamo la pace, forse anche perché non comprendiamo fino in fondo le ragioni di un odio insanabile, che impedisce la convivenza o la creazione di due Stati, e i fanatismi per cui proprio la pace sembra essere più che mai senza tempo e fuori luogo.

Qualcuno nemmeno si accorge che schierarsi aprioristicamente non aiuta la causa di nessuno: non si tratta di ignorare ciò che ha preceduto il 7 Ottobre, ma la data del 7 Ottobre poteva diventare l’ultima occasione per una svolta, nella riflessione e nel processo di pace.

Chissà se in questi terribili giorni resiste l’oasi di Neve Shalom, una comunità a metà strada tra Tel Aviv e Gerusalemme, dove convivono ebrei e arabi palestinesi. Tra di loro c’è la scrittrice israeliana Dorit Rabinyan, autrice di ‘Borderlife’, una storia piena di vita e dolore ambientata a New York nel secondo autunno senza le Twin Towers: narra l’amore tra Hilmi, che sogna di tornare a Ramallah, e l’israeliana Liat che, pur lasciandosi andare alla passione, si domanda sempre, a proposito di questo amore, “come ci rimarrebbe la mia famiglia, se sapesse?”.

Sono figli della stessa latitudine, sanno che la loro storia ha una data di scadenza: nessuno crede, loro per primi, che il loro legame possa essere più forte dei pregiudizi e dei sospetti delle rispettive culture in cui sono nati e cresciuti; più forte di quella divisione di potere e di terra che invece dilania i loro popoli: “Mentre aspettavo che la toilette per donne si liberasse, mi domandai se in quella degli uomini, dall’altra parte del muro, anche Hilmi stesse leggendo la scritta sulla serratura – OCCUPIED – pensando ai Territori”.

Liat è quella che sente di più la distanza inconciliabile tra due popoli che, anche quando non si odiano, si guardano di traverso. Il finale non è pervaso di speranza, ma una frase di Hilmi offre la misura poetica e politica di un cambiamento: “Un giorno il mare sarà di tutti e impareremo a nuotarci insieme”.

A noi, da questa riva del Mediterraneo, sembra possibile e necessario.

Ricordo ancora le parole dello scrittore Eskhol Nevo, ospite a Novara qualche tempo fa, quando diceva che siamo fortunati perché abitiamo da un’altra parte della Terra, un paradiso pieno di piccoli problemi se paragonato all’incubo di chi cammina per le strade di Israele o di Gaza; all’inferno di chi ha pensato che Israele sarebbe stato il posto in cui gli ebrei non avrebbero mai più subito un pogrom, e scopre invece che la sua vita è perennemente sotto attacco, sa che l’antisemitismo non è morto e che un pezzo di umanità, pertanto, secondo alcuni deve essere cancellato.

Eppure nella tragedia di due popoli abituati a vivere all’ombra della morte, c’è chi prova ad uscire dalla terribile spirale del conflitto e della vendetta.

Sono le donne: migliaia di ebree, musulmane e cristiane del movimento Women Wage Peace che insieme alla cantante israeliana Yael Deckelbaum dimostrano che il miracolo può accadere.

Più di 4000 in marcia nella zona del Mar Morto innalzano una preghiera in forma di canto: “Tra il cielo e la terra / ci sono persone che vogliono vivere in pace. / Non arrenderti, / continua a sognare / di pace e prosperità. / I muri della paura un giorno si scioglieranno / e tornerò dall’esilio. / Le mie porte si apriranno / a ciò che è veramente buono. / Da Nord a Sud / da Ovest a Est, / ascolta la preghiera delle madri: / Portare loro la pace. / La luce sta sorgendo dall’oriente / fino alla preghiera delle madri per la pace”.

In ansia, per un ferale effetto domino che metterebbe fine ad un mondo fondato su valori e regole che hanno rinnegato la guerra e i genocidi; in un luogo dove – diceva Amos Oz – “chi non sa distinguere tra i gradi di malvagità è destinato a diventare schiavo del male”; in un luogo in cui la fine dell’odio non è mai sembrata così lontana; in un luogo, dunque, senza poesia né voce e dove la bellezza si è spenta, la pace non è mai stata tanto necessaria.

“Quel fine settimana eravamo in pace, ognuno con se stesso e con l’altro. Stavamo bene insieme. Non a posteriori, per nostalgia. Non a priori, per aspettativa. Bene davvero, in quel preciso momento”. (E. Nevo)

Foto: Gerusalemme, Chiesa di tutte le Nazioni sul Monte degli Ulivi. Antonio Barluzzi, 1919 – 1924.

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Shalom – Salā’m

Dalla rubrica Vivere di un consumato amore

Non mi è mai piaciuto Harry Potter, ma quella di Noya è un’altra storia.

Noya Dan, una bambina autistica di 12 anni grande fan del maghetto di Hogwarts, è rimasta uccisa in seguito all’attacco di Hamas il 7 Ottobre a Kfar Aza e al kibbutz di Nir Oz.

Chissà se la sua nonna, ritrovata anche lei morta abbracciata alla nipote, ha avuto il tempo di levare un lamento come Ecuba sul corpo di Astianatte, scaraventato dai Greci dalle mura di Troia: “O Achei, che menate vanto maggiore di bravura che non di senno, perché avete perpetrato questo crimine inaudito? Per paura di un bambino? Ora che la città è stata presa avete avuto paura di questo bambino? O diletto, qual misera morte ti colse! Ora dalle ossa infrante ride la strage, e non dico l’orrore. O mani, che dolce somiglianza avevate con quelle del padre, eccovi qui, davanti a me, spezzate nelle giunture. O bocca adorata, che pronunziavi parole così fiere, sei spenta. Non tu me seppellisci, ma io, vecchia, senza patria, senza eredi, seppellisco il tuo misero cadavere, te così giovane!”.

Davanti alle macerie che hanno soppiantato le loro case, davanti ai bambini sgozzati e decapitati, chissà se una novella Andromaca ha avuto il coraggio di gridare ai terroristi quello che la moglie di Ettore ha detto ai Greci: “Voi avete inventato un’atrocità da selvaggi, voi uccidete un bambino che non ha colpa di nulla”.

Parole e immagini che avremmo voluto restassero confinate nei versi di Euripide. E invece siamo qui a chiederci chi in un conflitto è il barbaro, chi può dirsi innocente.

L’irruzione nelle case di Kfar Aza però, segna un punto di non ritorno, perché anche la più spietata delle guerre ha le sue regole; se si sgozza un bambino, non si uccide un israeliano, un palestinese, un arabo o un ebreo: la guerra diventa sterminio, chiama rappresaglia e vendetta, e ci si interroga come esseri umani.

Per ciò che è accaduto di folle e irresponsabile, che ha innescato un’inevitabile reazione altrettanto terribile, non vale più la narrazione di un popolo che vive in una terra occupata, di un popolo assediato da paesi ostili che ne assedia e circonda un altro.

Di fronte ai neonati martoriati di Kfar Aza, al massacro dell’ospedale e delle case di Gaza e a tutte le vittime civili, non è lecito fare propaganda, non si può dare spazio al giustificazionismo, non regge l’alibi della complessità di quel mondo: ‘Inorridiamo davanti alla barbarie di Hamas, però…’ è la premessa di un nuovo negazionismo, partito già da Bucha per arrivare a Kfar Aza e approdare alla striscia – prigione di Gaza.

Dovremmo aver imparato alla fine del secondo conflitto mondiale che nessun contesto può legittimare dei crimini.

Noi parliamo, prendiamo posizioni a volte anche discutibili e ipocrite, invochiamo la pace, forse anche perché non comprendiamo fino in fondo le ragioni di un odio insanabile, che impedisce la convivenza o la creazione di due Stati, e i fanatismi per cui proprio la pace sembra essere più che mai senza tempo e fuori luogo.

Qualcuno nemmeno si accorge che schierarsi aprioristicamente non aiuta la causa di nessuno: non si tratta di ignorare ciò che ha preceduto il 7 Ottobre, ma la data del 7 Ottobre poteva diventare l’ultima occasione per una svolta, nella riflessione e nel processo di pace.

Chissà se in questi terribili giorni resiste l’oasi di Neve Shalom, una comunità a metà strada tra Tel Aviv e Gerusalemme, dove convivono ebrei e arabi palestinesi. Tra di loro c’è la scrittrice israeliana Dorit Rabinyan, autrice di ‘Borderlife’, una storia piena di vita e dolore ambientata a New York nel secondo autunno senza le Twin Towers: narra l’amore tra Hilmi, che sogna di tornare a Ramallah, e l’israeliana Liat che, pur lasciandosi andare alla passione, si domanda sempre, a proposito di questo amore, “come ci rimarrebbe la mia famiglia, se sapesse?”.

Sono figli della stessa latitudine, sanno che la loro storia ha una data di scadenza: nessuno crede, loro per primi, che il loro legame possa essere più forte dei pregiudizi e dei sospetti delle rispettive culture in cui sono nati e cresciuti; più forte di quella divisione di potere e di terra che invece dilania i loro popoli: “Mentre aspettavo che la toilette per donne si liberasse, mi domandai se in quella degli uomini, dall’altra parte del muro, anche Hilmi stesse leggendo la scritta sulla serratura – OCCUPIED – pensando ai Territori”.

Liat è quella che sente di più la distanza inconciliabile tra due popoli che, anche quando non si odiano, si guardano di traverso. Il finale non è pervaso di speranza, ma una frase di Hilmi offre la misura poetica e politica di un cambiamento: “Un giorno il mare sarà di tutti e impareremo a nuotarci insieme”.

A noi, da questa riva del Mediterraneo, sembra possibile e necessario.

Ricordo ancora le parole dello scrittore Eskhol Nevo, ospite a Novara qualche tempo fa, quando diceva che siamo fortunati perché abitiamo da un’altra parte della Terra, un paradiso pieno di piccoli problemi se paragonato all’incubo di chi cammina per le strade di Israele o di Gaza; all’inferno di chi ha pensato che Israele sarebbe stato il posto in cui gli ebrei non avrebbero mai più subito un pogrom, e scopre invece che la sua vita è perennemente sotto attacco, sa che l’antisemitismo non è morto e che un pezzo di umanità, pertanto, secondo alcuni deve essere cancellato.

Eppure nella tragedia di due popoli abituati a vivere all’ombra della morte, c’è chi prova ad uscire dalla terribile spirale del conflitto e della vendetta.

Sono le donne: migliaia di ebree, musulmane e cristiane del movimento Women Wage Peace che insieme alla cantante israeliana Yael Deckelbaum dimostrano che il miracolo può accadere.

Più di 4000 in marcia nella zona del Mar Morto innalzano una preghiera in forma di canto: “Tra il cielo e la terra / ci sono persone che vogliono vivere in pace. / Non arrenderti, / continua a sognare / di pace e prosperità. / I muri della paura un giorno si scioglieranno / e tornerò dall’esilio. / Le mie porte si apriranno / a ciò che è veramente buono. / Da Nord a Sud / da Ovest a Est, / ascolta la preghiera delle madri: / Portare loro la pace. / La luce sta sorgendo dall’oriente / fino alla preghiera delle madri per la pace”.

In ansia, per un ferale effetto domino che metterebbe fine ad un mondo fondato su valori e regole che hanno rinnegato la guerra e i genocidi; in un luogo dove – diceva Amos Oz – “chi non sa distinguere tra i gradi di malvagità è destinato a diventare schiavo del male”; in un luogo in cui la fine dell’odio non è mai sembrata così lontana; in un luogo, dunque, senza poesia né voce e dove la bellezza si è spenta, la pace non è mai stata tanto necessaria.

“Quel fine settimana eravamo in pace, ognuno con se stesso e con l’altro. Stavamo bene insieme. Non a posteriori, per nostalgia. Non a priori, per aspettativa. Bene davvero, in quel preciso momento”. (E. Nevo)

Foto: Gerusalemme, Chiesa di tutte le Nazioni sul Monte degli Ulivi. Antonio Barluzzi, 1919 – 1924.

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