Sono parole preoccupate e indignate quelle che Gian Antonio Stella usa in suo editoriale sul “Corriere della sera”, per denunciare i danni ambientali nell’area delle Dolomiti dove si svolgeranno i Giochi olimpici invernali nel 2026: Macché droni! Non servono droni, funamboli o reporter acrobatici appesi ai tralicci per fotografare la distruzione dei boschi sopra Cortina. Basta salire sulla cabinovia «Freccia nel cielo» che ascende verso la spettacolare Tofana, ed ecco che, di sotto, si spalanca l’oscena devastazione di quello che fino a pochi mesi fa era il Parco Avventura, dove i ragazzini seguivano un percorso di larice in larice. Sventrato. Come sventrato, quando mancano 135 giorni lavorativi alla dead line del 15 marzo 2025, è tutto il bosco di Ronco. La vista dal cielo dello spropositato cantiere marrone di melma, solcato dai primi muraglioni di cemento armato del bob , oggi mette spavento”.

Non è certo una consolazione sapere che, una volta terminata l’Olimpiade, la pista delle gare verrà smantellata e torneranno ad essere piantati i larici: intanto piante secolari vengono abbattute a colpi di motosega.

Non è soltanto il buon senso ad essere smarrito, lo sono anche la bellezza e la sacralità della natura: secondo una leggenda delle Dolomiti, il larice fu creato da due nani come dono di nozze per una ninfa dei torrenti, che per difenderlo dal freddo lo ricoprì con il suo velo trasparente.

Ancora una volta dobbiamo riconoscere che il mito e la poesia ci coinvolgono nella comprensione e nel rispetto della natura molto più della scienza, trasmettono l’idea di prossimità e di necessità che gli esseri umani hanno riguardo agli alberi.

Ce lo ricorda Mino Petazzini, poeta e direttore della Fondazione Villa Chigi a Bologna, un’istituzione dedicata alla protezione della natura in Italia; Petazzini ha dedicato una corposa antologia ad ogni forma di albero, arbusto e rampicante che sia stato citato nella poesia e nella prosa di tutti i tempi. E non può non dirci quanto i larici siano stati amati da Mario Rigoni Stern:

“I tre larici della Ultental, in Sudtirolo, oltre il villaggio di Santa Geltrude, sono certo gli alberi più antichi delle Alpi. Il più maestoso di questi misura più di otto metri di circonferenza e la sua altezza, malgrado un fulmine o la neve che gli hanno spezzato l’apice, è di ventotto metri. Anche il «mio» albero da ragazzo era un larice. L’aveva fatto piantare mio nonno per ricordare il ventesimo secolo. Poi venne la Grande Guerra e nella corteccia portava le cicatrici di quando, tra il 1916 e il 1918, si trovò tra l’una e l’altra trincea del fronte. Le ferite delle pallottole e delle schegge erano allora, attorno agli anni Trenta, incrostate di resina, e forse la biforcazione in alto era dovuta alla stroncatura inferta da una granata di passaggio. Ma il larice, oltre alle tormente e ai fulmini, sopporta anche la guerra. Mi arrampicavo lassù tra gli aghi d’oro infiammati dal sole verso il tramonto. A volte mi sedevo a cavalcioni nella forcella della biforcazione e la resina mi impeciava la gambe nude e i calzoncini. Ma quando il sole incominciava a scendere dietro le Piccole Dolomiti mi alzavo da ramo in ramo come uno scoiattolo, fin dove la punta incominciava a dondolare sopra il vuoto e i rami flessibili e sottili riuscivano a sopportare il mio peso. Mi pareva, da lassù, di poter guardare più a lungo il sole che tramontava tra nuvole infuocate e di navigare con la fantasia verso avventure infinite. Era questo il momento in cui noi ragazzi, ognuno sul suo albero, restavamo silenziosi”.

Rigoni Stern aggiunge che il larice “nella lontana Siberia certe popolazioni primitive lo considerano albero cosmico, lungo il quale scendono il Sole e la Luna sotto forma d’uccelli d’oro e d’argento. A me piace perché vive di poco e aggrappato alla roccia sfida lungo i secoli le bufere invernali, i fulmini, la siccità e le guerre, tornando a fiorire ogni primavera per risvegliare gli amori dell’urogallo”.

Dalla Siberia arriva un racconto che spesso viene pubblicato su giornali e riviste in occasione delle feste pasquali cristiane, perchè racconta di una resurrezione alla vita: si tratta di un testo di Varlam Tichonovič Salamov, ispirato alla morte del poeta Osip Mandel’ štam nel gulag della Kolyma.

Quando ancora il suo spirito non è completamente distrutto né avvelenato da decenni di vita in prigionia, il poeta spedisce a Mosca per via aerea un pacco che contiene un ramo di larice, un ramo morto di color marrone chiaro, secco e avvizzito, che, messo nell’acqua, misteriosamente riprende vita, esala un debole profumo di resina e rivela nell’esile corteccia nuovi e freschi germogli: “Il larice è vivo, il larice è immortale, questo miracolo della risurrezione non poteva non realizzarsi poiché il larice era stato messo nell’acqua nell’anniversario della morte, alla Kolyma, del marito della padrona di casa, il poeta Osip Mandelstam.”

Luciano Erba, lontano dalla madre, torna con la memoria ai luoghi visitati con lei e il ricordo è fatto anche di elementi naturali: “Tu anche mi appari agli ultimi sogni / e il giorno per te s’inizia / con altro cielo. / Sul treno delle vacanze / cerco il tuo viso / e le nostre stature / il nostro respiro giovane / oltre i larici. / Mi ridico / per ritrovare la tua voce di allora / certi nomi di luoghi / che pronunciavi indicandoli al di qua della valle. / Amarti è questo, e piangere. / Altro non so. La pena / è certa / è il rimorso”.

Solamente immersa nella concreta bellezza della natura, mentre scende dalle sue montagne, Antonia Pozzi può tollerare la lontananza e il ricordo disperato della persona amata: “Già, sulle crode, sono rifioriti / i perenni rosai crepuscolari. / Lontana, ormai, la malga abbandonata / fra i rododendri. Il vento delle gole / non geme più, mordendoci la nuca. / Sale l’umida calma del pineto. / I larici e gli abeti, con la vetta, / ruban la prima oscurità, su in cielo; / con le ricurve frange, l’accompagnano / fin presso a terra: lì, piano, la versano / a fare viola il muschio ed i mirtilli, / a fare azzurri i sassi del sentiero. / Nel mio ricordo stanco, disperato, / tu ti frantumi d’ombra e di silenzio”.

Sulle Dolomiti intanto, gli addetti ai lavori sostengono che l’impianto sportivo sia ben inserito nel contesto naturalistico e non sia particolarmente impattante.

Però al bosco di Ronco i tagli dovrebbero essere tra i 400 e i 500, forse di più.

Torneranno i larici?

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Torneranno i larici

Sono parole preoccupate e indignate quelle che Gian Antonio Stella usa in suo editoriale sul “Corriere della sera”, per denunciare i danni ambientali nell’area delle Dolomiti dove si svolgeranno i Giochi olimpici invernali nel 2026: Macché droni! Non servono droni, funamboli o reporter acrobatici appesi ai tralicci per fotografare la distruzione dei boschi sopra Cortina. Basta salire sulla cabinovia «Freccia nel cielo» che ascende verso la spettacolare Tofana, ed ecco che, di sotto, si spalanca l’oscena devastazione di quello che fino a pochi mesi fa era il Parco Avventura, dove i ragazzini seguivano un percorso di larice in larice. Sventrato. Come sventrato, quando mancano 135 giorni lavorativi alla dead line del 15 marzo 2025, è tutto il bosco di Ronco. La vista dal cielo dello spropositato cantiere marrone di melma, solcato dai primi muraglioni di cemento armato del bob , oggi mette spavento”.

Non è certo una consolazione sapere che, una volta terminata l’Olimpiade, la pista delle gare verrà smantellata e torneranno ad essere piantati i larici: intanto piante secolari vengono abbattute a colpi di motosega.

Non è soltanto il buon senso ad essere smarrito, lo sono anche la bellezza e la sacralità della natura: secondo una leggenda delle Dolomiti, il larice fu creato da due nani come dono di nozze per una ninfa dei torrenti, che per difenderlo dal freddo lo ricoprì con il suo velo trasparente.

Ancora una volta dobbiamo riconoscere che il mito e la poesia ci coinvolgono nella comprensione e nel rispetto della natura molto più della scienza, trasmettono l’idea di prossimità e di necessità che gli esseri umani hanno riguardo agli alberi.

Ce lo ricorda Mino Petazzini, poeta e direttore della Fondazione Villa Chigi a Bologna, un’istituzione dedicata alla protezione della natura in Italia; Petazzini ha dedicato una corposa antologia ad ogni forma di albero, arbusto e rampicante che sia stato citato nella poesia e nella prosa di tutti i tempi. E non può non dirci quanto i larici siano stati amati da Mario Rigoni Stern:

“I tre larici della Ultental, in Sudtirolo, oltre il villaggio di Santa Geltrude, sono certo gli alberi più antichi delle Alpi. Il più maestoso di questi misura più di otto metri di circonferenza e la sua altezza, malgrado un fulmine o la neve che gli hanno spezzato l’apice, è di ventotto metri. Anche il «mio» albero da ragazzo era un larice. L’aveva fatto piantare mio nonno per ricordare il ventesimo secolo. Poi venne la Grande Guerra e nella corteccia portava le cicatrici di quando, tra il 1916 e il 1918, si trovò tra l’una e l’altra trincea del fronte. Le ferite delle pallottole e delle schegge erano allora, attorno agli anni Trenta, incrostate di resina, e forse la biforcazione in alto era dovuta alla stroncatura inferta da una granata di passaggio. Ma il larice, oltre alle tormente e ai fulmini, sopporta anche la guerra. Mi arrampicavo lassù tra gli aghi d’oro infiammati dal sole verso il tramonto. A volte mi sedevo a cavalcioni nella forcella della biforcazione e la resina mi impeciava la gambe nude e i calzoncini. Ma quando il sole incominciava a scendere dietro le Piccole Dolomiti mi alzavo da ramo in ramo come uno scoiattolo, fin dove la punta incominciava a dondolare sopra il vuoto e i rami flessibili e sottili riuscivano a sopportare il mio peso. Mi pareva, da lassù, di poter guardare più a lungo il sole che tramontava tra nuvole infuocate e di navigare con la fantasia verso avventure infinite. Era questo il momento in cui noi ragazzi, ognuno sul suo albero, restavamo silenziosi”.

Rigoni Stern aggiunge che il larice “nella lontana Siberia certe popolazioni primitive lo considerano albero cosmico, lungo il quale scendono il Sole e la Luna sotto forma d’uccelli d’oro e d’argento. A me piace perché vive di poco e aggrappato alla roccia sfida lungo i secoli le bufere invernali, i fulmini, la siccità e le guerre, tornando a fiorire ogni primavera per risvegliare gli amori dell’urogallo”.

Dalla Siberia arriva un racconto che spesso viene pubblicato su giornali e riviste in occasione delle feste pasquali cristiane, perchè racconta di una resurrezione alla vita: si tratta di un testo di Varlam Tichonovič Salamov, ispirato alla morte del poeta Osip Mandel’ štam nel gulag della Kolyma.

Quando ancora il suo spirito non è completamente distrutto né avvelenato da decenni di vita in prigionia, il poeta spedisce a Mosca per via aerea un pacco che contiene un ramo di larice, un ramo morto di color marrone chiaro, secco e avvizzito, che, messo nell’acqua, misteriosamente riprende vita, esala un debole profumo di resina e rivela nell’esile corteccia nuovi e freschi germogli: “Il larice è vivo, il larice è immortale, questo miracolo della risurrezione non poteva non realizzarsi poiché il larice era stato messo nell’acqua nell’anniversario della morte, alla Kolyma, del marito della padrona di casa, il poeta Osip Mandelstam.”

Luciano Erba, lontano dalla madre, torna con la memoria ai luoghi visitati con lei e il ricordo è fatto anche di elementi naturali: “Tu anche mi appari agli ultimi sogni / e il giorno per te s’inizia / con altro cielo. / Sul treno delle vacanze / cerco il tuo viso / e le nostre stature / il nostro respiro giovane / oltre i larici. / Mi ridico / per ritrovare la tua voce di allora / certi nomi di luoghi / che pronunciavi indicandoli al di qua della valle. / Amarti è questo, e piangere. / Altro non so. La pena / è certa / è il rimorso”.

Solamente immersa nella concreta bellezza della natura, mentre scende dalle sue montagne, Antonia Pozzi può tollerare la lontananza e il ricordo disperato della persona amata: “Già, sulle crode, sono rifioriti / i perenni rosai crepuscolari. / Lontana, ormai, la malga abbandonata / fra i rododendri. Il vento delle gole / non geme più, mordendoci la nuca. / Sale l’umida calma del pineto. / I larici e gli abeti, con la vetta, / ruban la prima oscurità, su in cielo; / con le ricurve frange, l’accompagnano / fin presso a terra: lì, piano, la versano / a fare viola il muschio ed i mirtilli, / a fare azzurri i sassi del sentiero. / Nel mio ricordo stanco, disperato, / tu ti frantumi d’ombra e di silenzio”.

Sulle Dolomiti intanto, gli addetti ai lavori sostengono che l’impianto sportivo sia ben inserito nel contesto naturalistico e non sia particolarmente impattante.

Però al bosco di Ronco i tagli dovrebbero essere tra i 400 e i 500, forse di più.

Torneranno i larici?

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